La seconda vita di Bazzani: “Sogno di allenare in Serie A. Pirlo rischio calcolato”

Allievo Cosmi, le gioie alla Samp

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Portici in cui sentirsi coccolati: dove la voce festante rimbomba dopo una domenica da ricordare, dove altre volte risuonano i passi di chi riflette e pensa che le cose sarebbero potute andare diversamente. Bologna è una regola che può provare a spiegare solo chi la conosce. Qui Fabio Bazzani è nato e rinato tante volte in 43 anni: l’ex attaccante esploso col Perugia di Gaucci e Grosso, il bomber che a Genova ha ricevuto un mare di affetto dopo aver dispensato gioie e gol al fianco del compagno d’attacco Francesco Flachi. L’esperienza alla Lazio è durata poco, il feeling con Serse Cosmi invece non è mai finito e dopo il ritiro di Fabio dall’attività agonistica si è trasformato in un rapporto di collaborazione uno al fianco dell’altro. Oggi Bazzani ne fa tesoro e lavora per insegnare calcio dopo essere stato l’allievo che molti vorrebbero.

Fabio, nelle sue ultime esperienze lei è stato il vice di Cosmi: come è andata?
Ho iniziato ad allenare quattro anni fa in Serie D, poi è arrivata la chiamata di Serse: abbiamo lavorato insieme ad Ascoli, a Venezia e a Perugia. Sono state esperienze da subentranti: essere al fianco di un allenatore come lui per me è stato un enorme motivo di crescita, davvero molto formativo. L’esperienza a Perugia è andata come è andata, bisogna guardare avanti: è acqua passata, c’è dispiacere per come è finita, ma ci sono mille motivi. Se un giorno ne vorrà parlare nei dettagli è giusto che lo faccia Serse.

Come è cambiato nel tempo il rapporto tra di voi?
Quando io facevo il giocatore e lui l’allenatore avevamo un ottimo rapporto, c’era stima reciproca: non a caso con Serse sono riuscito sempre a far bene. Poi siamo passati dalla stessa parte: ho cercato di essere un buon consigliere, col tempo ho iniziato a ragionare da allenatore. Quando decidi di fare questo mestiere cambia tutto: puoi essere esperto quanto vuoi, puoi aver giocato per vent’anni, ma impari a ragionare da allenatore solo quando vai dall’altra parte della barricata. Capisci quante volte avevano avuto ragione i tuoi mister, ma tu ragionavi in un’altra maniera. Un allenatore deve pensare giorno e notte a trenta teste e gestire la società, un calciatore deve pensare solo a se stesso dopo l’allenamento.

Quando ha pensato di intraprendere questo percorso?
Negli ultimi anni della mia carriera ho approfondito ciò che mi spiegavano gli allenatori e ho cominciato a vedere le partite con occhio diverso. Ero curioso, avevo voglia di mettermi in gioco e di seguire i corsi.  Il calcio si è evoluto, oggi la tattica la fa padrona rispetto agli anni in cui giocavo io. È un lavoro davvero entusiasmante che ti obbliga ad un grande dispendio di energie nervose. Dopo le esperienze con Cosmi, sento il desiderio di tornare a fare il primo: magari sarà questo il mio ruolo nella prossima avventura.

Nel 2001 lei è passato al Perugia: come è nato quel trasferimento?
Più che Gaucci a volermi a Perugia è stato Serse e alla fine la sua costanza è stata premiata: è riuscito a convincere il presidente che era po’ diffidente nel dare la maglia da titolare del Perugia ad un ragazzo che non quasi aveva esperienza in Serie A. Prima di Perugia avevo giocato appena due partite col Venezia. Gaucci si è fidato di Cosmi che aveva acquisito credibilità dopo aver ottenuto risultati importantissimi.

Com’era la rosa di quel Perugia?
Materazzi e Liverani erano andati via, ma c’erano Dellas e Ze Maria, Blasi e Vryzas. Quel Perugia era una squadra di assoluto livello, la società scommetteva su giocatori che avevano fame e voglia di emergere. Alcuni di loro poi sono arrivati al top del calcio mondiale, gli altri hanno avuto lo stesso delle buonissime carriere. Nel 2001-02 siamo arrivati ottavi conquistando la qualificazione all’Intertoto che l’anno dopo il Perugia ha addirittura vinto. C’erano giocatori esperti come Tedesco, Milanese e Sogliano e altri che avevano tanta fame come me, Grosso, Baiocco e lo stesso Liverani prima di trasferirsi alla Lazio.

(Photo by Getty Images)

Nel 2002 lei è passato alla Samp in Serie B: che cosa ha rappresentato Genova per lei?
Se Perugia è stata il trampolino di lancio in Serie A, Genova è stata la mia consacrazione: lì ho vissuto gli anni più importanti della mia carriera. Grazie alle prestazioni con la Samp ho avuto anche la possibilità di giocare qualche partita in Nazionale. Abbiamo vinto la Serie B al primo anno riportando subito il club in A. Mi sono tolto grandi soddisfazioni in una piazza che ha una tifoseria incredibile. Peccato per gli ultimi due anni in cui sono stato fermato da infortuni ripetuti alle ginocchia che mi hanno impedito di giocare. Due operazioni ai legamenti crociati hanno condizionato il prosieguo della mia carriera, non mi hanno permesso di rimanere a certi livelli. Io giocavo molto sulla forza e sullo stacco e ne ho risentito.

Lei è stato compagno d’attacco di Francesco Flachi: che rapporto c’era tra di voi?
Sono stato anche suo testimone di nozze. Il feeling che avevamo fuori c’era anche in campo, non c’è mai stato bisogno di costruirlo. Le nostre caratteristiche si sposavano alla perfezione, sembrava che giocassimo insieme da sempre, in campo ci trovavamo ad occhi chiusi. All’epoca siamo stati uno la fortuna dell’altro, tra di noi poi non c’erano né invidie né gelosie. Abbiamo fatto grandi cose insieme grazie al supporto di una squadra che ci metteva sempre nelle condizioni giuste per fare la differenza.

Lei ha giocato tre partite con la Nazionale: che emozione è stata?
Senza nulla togliere ai giocatori di oggi, ho fatto tre presenze negli anni in cui la concorrenza per andare in Nazionale era rappresentata da Inzaghi, Totti, Del Piero, Montella, Vieri, Cassano: signori attaccanti, chi non era un fuoriclasse faceva fatica a ritagliarsi uno spazio. Oggi non ci sono questi sei attaccanti che ho nominato, all’epoca strappare un posto era difficile. Avercela fatta è un motivo di grande orgoglio.

Che ricordo ha di Trapattoni?
Il Trap aveva dimostrato la sua esperienza e la sua umanità mettendo il gruppo nelle migliori condizioni. Traspariva il suo vissuto calcistico, Trapattoni non aveva bisogno di fare cose eclatanti per far capire la sua personalità. Ho giocato anche alla prima di Lippi: ho intravisto un allenatore che voleva lavorare più sulla tattica e su concetti diversi. Col mister in panchina sono sceso in campo contro l’Islanda, poi non sono più stato convocato, ma avevo capito che stava iniziando un ciclo diverso.

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