Nel nome di Diego, nella buona e nella cattiva sorte. Un amore senza limiti

Una città che continua a dedicarsi al culto dell’argentino, quasi una divinità. Insieme per sempre, una dedizione che non conosce fine

Giancarlo Dotto

5 maggio – Milano

Nel nome di Diego. Facile dirlo, impossibile non dirlo. Se si tratta di Napoli e dei napoletani, Diego non ha bisogno di trascinarsi dietro un corpo per continuare a esistere. Bizantini, normanni, aragonesi, austriaci, francesi, Borboni, turisti e garibaldini: nessuno ha invaso Napoli quanto Maradona. Le strade, i muri e i presepi hanno la sua faccia, la gente canta il suo nome, un figlio porta il suo nome, lo stadio ha il suo nome. Insieme per sempre, nella cattiva e nella buona sorte. Che sia l’abisso della Serie C o l’estasi dello scudetto. Oh mamma mamma mamma! Sai perché gli batte il corazòn? Un giorno hanno visto Maradona e innamorati sono. E, d’altro canto, vedi Napoli e poi vivi. Dove Diego fu autorizzato a credersi Dio, che fosse il piede o la mano non importa. Luciano Spalletti lo sa bene. Lo ha capito dal suo primo vesuviano giorno. Parlando in qualunque lingua possibile, coreano incluso, a ragazzi che ne avevano solo un vago e folcloristico concetto: evocare Maradona è l’unica preghiera laica che conta, se la divinità è lui. Lo ha evocato tutte le volte che serviva un infuso extra di energia, una tazza mega di suggestione. Maradona è morto da un pezzo, ma Napoli resta ai suoi piedi. Caso di fedeltà struggente. Di questi giorni, tra i vicoli della città vecchia e i Quartieri Spagnoli, la sua faccia si mischia e si confonde nello stesso azzurro con quelle di Osimhen e di Kvara, insieme a loro, in squadra con loro, valchiria decisiva della trionfale cavalcata. Indubitabilmente. Questo scudetto è anche suo. Diego è stato ovunque. Nelle strade, in campo, nello spogliatoio. Sul collo bello taurino di Spalletti, anche quando parlava esoterico alla stampa.

Idolo democratico

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Diego a Napoli ha intimizzato (a Napoli si dice) con tutti: bambini, vecchi, donne e malavitosi, probi e virtuosi. L’idolo delle mamme e degli scugnizzi, degli intellettuali e dei camorristi. Non solo inventando palombelle edeniche, ma portando a spasso in quel magnifico manicomio il suo testone da cebollita, lo smisurato cabezòn sul tronco da nano dentro cui si agitava una sola urgenza: vivere estremo, come di più non è possibile. Sì, perché, una volta che sei stato Maradona lo sarai per sempre, anche se non hai più un pallone tra i piedi, anche se poi te ne vai altrove, lontano. Con tutta quella carne addosso, duplicandoti e disfacendoti, tra Baires, L’Avana, Sinaloa, Dubai, o chissà dove, la tua esistenza che è ormai una lotteria, appeso al tuo strematissimo corazòn e l’enorme pancia dove hai stipato tutta la tua enorme vita, schifezze e cose sublimi, dentro e fuori i centri di rianimazione, le cliniche psichiatriche, bulimia, cocaina e depressione.

Maradona è per sempre. Anche quando obeso, deforme e intrattabile. Non avendo mai lasciato Napoli, nemmeno quando, quella fredda, livida Pasqua del ’92, aveva davvero creduto d’averlo fatto. Napoli addio? Ma mi faccia il piacere! La prima volta, quando ancora si chiamava San Paolo. Era il 5 luglio 1984. “Buona sera napolitani, sono molto felice di essere con voi”. La sera prima, al suo arrivo con Ferlaino a Capri, aveva seminato il panico ordinando al maitre del Quisisana la pasta con il tartufo. Gli trovano, chissà come, il tartufo e il giorno dopo lui li ringrazia così allo stadio, facendo la foca nel delirio dei 70 mila, con la sciarpa del Napoli al collo: scaglia di sinistro in cielo la palla che non è mai più tornata indietro. Scende nel tunnel e scoppia in lacrime, lui e l’allora sua Claudia. Scopre solo dopo aver firmato che il Napoli non era il Barcellona italiano, ma una squadra che si era salvata per un punto dalla retrocessione l’anno prima. Fa spallucce e inventa calcio, vince scudetti. Da allora, Maradona uguale orgia a oltranza, nel senso del rito pagano. Diego c’è sempre. Non c’è festa, bagordo, anniversario, non c’è funerale, che sia quello di Aurelio Fierro o di Massimo Troisi, in cui il nome o la faccia del dio del calcio non spuntino prima o poi a ricordarti come stanno le cose a Napoli tra cielo e terra. C’è sempre stato Maradona in questi ultimi quarant’anni. Calciatore, icona, reduce e fantasma. C’era sempre, anche quando non c’era, a tifare la squadra anche quando tirava la cinghia nella suburra della C, e allo stadio ci andavano comunque in sessantamila portandosi dietro lo striscione “Aurelio, te putimm’ chiammà” e gorgheggiando però il loro mai anacronistico canto, “Oh mamma, mamma, mamma…”, eccetera. Perché anche la C è più decente se un giorno hai visto Maradona. Meritandosi, all’epoca, lo stupore impaginato del Times che, per una volta, ha altro da raccontare che una città “soffocata dal traffico, invasa dai rifiuti e afflitta dalla criminalità”. Tutti figli di Maradona, se non dello stesso sangue dello stesso sogno, e molti gli somigliano, “El Pibe” a 9 anni in un campo sterrato, il frangettone, magro come un chiodo, che li recita a memoria i suoi sogni: giocare un Mondiale e un giorno vincerlo.

La sera più nera

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C’è stato sempre Maradona. Il più grande calciatore mai apparso sul pianeta e a Napoli, che è un pianeta a parte. C’era anche quella sera del 2 agosto 2004, le cinque della sera, quando la notizia del fallimento si diffuse in città con la velocità del lampo e la brutalità dello sfregio. Uno stupro. Talmente doloroso che quasi non provoca dolore. Il Napoli che non c’era più. Sparito. Dal calcio che conta e dal calcio che canta. C’era un mese dopo, Diego, quel 10 settembre, un afoso venerdì, il primo giorno di ritiro a Paestum. Il ritiro più surreale della storia. C’era il ritiro, ma non c’era la squadra. C’era il “Napoli Soccer”, una barzelletta, messo su alla bell’è meglio, un allenatore, Giampiero Ventura, un bravo direttore sportivo, Pierpaolo Marino, un mitico massaggiatore, Salvatore Carmando, l’avatar di Maradona, un magazziniere, Tommaso Starace, e quattro calciatori quattro, il Pampa Sosa, Montervino, Montesanto e il giovane Esposito, con i quali non potevi nemmeno improvvisare un’amichevole di calcetto.

Non c’era una sede, non c’era una sedia, non c’erano le maglie, c’era solo un pallone sgonfio. E, intorno, solo rovine greche e calcistiche. C’era sempre Diego anche quando quella truppa eroica e brancaleonesca, da quella terra di nessuno, sarebbe andata a sfidare cagnacci astiosi dentro campi sabbiosi tra Chieti, Benevento e Gela. C’era più che mai Diego sulla schiena e nelle gambe del Pampa Sosa, quel giorno al San Paolo della festa della rinascita, la promozione in B. El Pampa che fa un gol alla Maradona con la maglia di Maradona, la numero 10. L’ultimo del Napoli a indossarla. Fu Diego a fare quel gol per lui. Una palombella per l’appunto edenica.

Il film della vita

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Partiva da lì, vallo a sapere, da un campo di Paestum alle falde del Vesuvio, la romanzesca storia del Napoli che, quasi vent’anni dopo, stravincerà lo scudetto. C’era per fortuna, in quelle rovine, Aurelio De Laurentiis, il Santo Produttore. Sa poco o nulla di calcio, ma ha il grande merito di capire che Napoli sarà il kolossal della sua vita. Emozioni che prima o poi diventeranno pepite e, di sicuro, un film. A partire da un Napoli vivo soltanto sulle carte federali e nella testa di De Laurentiis. Poco più che un’astrazione. Lo zero perfetto per ricominciare. Con Aurelio c’è oggi l’allenatore giusto, uno che, a 64 anni, ha scelto lo stadio di Maradona per consegnarsi alla grandezza che merita. Con loro e i settantamila in calore (è il caso di dirlo?) c’è anche Diego, in ogni anfratto dello stadio che porta il suo potente nome. Immaginatelo come volete, scugnizzo e raggiante o magnifico e fermo, ieratico come una vacca sacra, in smoking o in mutande e infradito, a testimoniare il suo ennesimo trionfo. E prima o poi, potete giurarci, rispunterà lo striscione all’entrata del cimitero di Napoli: “Che vi siete persi…”.

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