Giannichedda: “Studio da Allegri, stupito da Simone Inzaghi. Quel Rimini-Juve…”

Castrocielo: 4000 anime fra le alture laziali. Qui è cominciato il viaggio di Giuliano Giannichedda, che di sardo porta con sé solamente il cognome, un regalo dei bisnonni. Il suo cuore batte forte per la Ciociaria dove è cresciuto. Una terra di lavoro e di gente che non si tira indietro. E non dimentica mai da dove è partita. Un papà milanista e un pallone per amico. Poi gli anni ad Udine dove Giannichedda era giovane e in campo è cresciuto commettendo anche qualche errore, quindi il ritorno nel Lazio a Roma sponda biancoceleste quando l’esperienza era ormai dalla sua parte. Poi la Juventus e il 2006, l’estate in cui Giuliano si è rimboccato le maniche senza vergogna ed è sceso in Serie B insieme ad altri campioni per risalire l’anno dopo più forte di prima. Nella sua nuova vita porta con sé tutto questo e lavora sodo per farsi trovare pronto. Come gli ha insegnato Castrocielo e la sua gente.

Giuliano, che momento sta vivendo professionalmente?

Quando ho finito di giocare, ho cominciato a lavorare come allenatore nel Comitato Regionale Lazio: mi occupavo delle rappresentative. Poi sono entrato nel Club Italia: ho avuto la fortuna di lavorare con Arrigo Sacchi e Maurizio Viscidi. È stata una grande occasione di crescita. Poi ho fatto due anni di Lega Pro. Ho vissuto una breve esperienza a Viterbo. Oggi lavoro coi giovani. Non è semplice allenare visto il periodo che stiamo vivendo. Vedo partite e mi aggiorno. Il calcio è la mia vita. Ho giocato a lungo e sono contento di essere rimasto in questo mondo.

Quanto è difficile allenare oggi?

Molto. È più facile cambiare una persona sola anziché 15 giocatori. La difficoltà non sta nell’allenare, ma nel gestire tutto quello che c’è intorno: direttori, procuratori, presidenti e giornalisti. È tutto l’insieme che diventa difficile. Noi però siamo abituati alle pressioni. L’allenatore deve mandare avanti tutto perché è il primo responsabile. Quando le soddisfazioni arrivano sono enormi. Sei il condottiero, per te oneri e onori.

Lei ha avuto tanti condottieri: chi le ha insegnato di più?

Sono stato molto fortunato. Da Capello a Zaccheroni, da Spalletti a Mancini, lo stesso Guidolin, Zoff in Nazionale. Ricordo anche De Canio. Ho avuto grandi allenatori che hanno vinto tanto. Alcuni erano insegnanti di calcio, altri erano maestri nella gestione.

Che tipo di calcio le piace fare?

Io la penso un po’ come Allegri. Devi considerare i giocatori a disposizione e che cosa vuole la società. Tante volte le aspettative possono far pensare cose non vere. La parola giusta è programmazione. In un gruppo vincente funzionano lo staff dirigenziale e quello tecnico. Saper programmare è fondamentale per il futuro del calcio considerato anche il periodo di congiuntura economica sfavorevole che stiamo vivendo.

Come è diventato calciatore?

Grazie a mio padre che faceva il calciatore in Serie D. Io e la mia famiglia andavamo sempre a vederlo giocare. Ho cominciato a Castrocielo, un piccolo paese della provincia di Frosinone. Gli anni passano in fretta, ad un certo ti fermi e ti accorgi che sei arrivato al massimo livello. Poi devi essere bravo a rimanerci.

Lei aveva un mito da ragazzo? Come è nato centrocampista?

Ho sempre giocato in mezzo al campo. Mi ritenevano abbastanza intelligente da prevedere lo sviluppo dell’azione. Mio padre era milanista. Quando ho cominciato a capire un po’ di calcio guardavamo insieme le partite. Rijkaard era di un’intelligenza estrema ed era unico per come interpretava il ruolo in mezzo al campo. Faceva l’incontrista, ma quando si inseriva segnava, aveva grande struttura fisica. Era un calciatore moderno già quarant’anni fa.

Lei è di origini sarde, ma è nato e cresciuto nel Lazio: che cosa le ha insegnato Castrocielo?

I miei bisnonni erano di origini sarde come indica il mio cognome. Però mio nonno e mio padre sono cresciuti in Ciociaria. Quando posso ci ritorno volentieri. Vivo a Roma, ma sono rimasto molto legato alla mia terra. Penso che le origini ti diano una carica speciale. Se cominci in un paesino e poi arrivi a giocare ad alti livelli ti devi ricordare da dove sei partito. Castrocielo mi ha ha insegnato a lavorare tanto. Quando giochi in un paesino non ti regala niente nessuno. Sono cresciuto in mezzo a gente umile fatta di grandi lavoratori, educata e rispettosa. Mi hanno insegnato ad andare avanti sempre con grande tenacia. Nei paesini hai poche opportunità per metterti in mostra. Devi avere tanta costanza.

Ad Udine lei ha ritrovato un ambiente altrettanto familiare?

Sì, perché è una bella cittadina, a misura d’uomo, lì giochi e ti danno la possibilità di crescere e sbagliare se sei giovane. Quando sono arrivato in Serie A a vent’anni dalla C la mia grande fortuna è stata partire da Udine, dove ho ritrovato gli stessi valori che ci sono nei piccoli centri. L’impegno e la serietà pagano sempre. I friulani sono così. Sono stato benissimo con loro.

Quale è stata la sua notte più bella con l’Udinese?

Era una grande Udinese. Al primo anno ci siamo salvati. Dal secondo in poi con Zaccheroni siamo arrivati in Coppa Uefa, con Guidolin abbiamo fatto altrettanto. Ci sono state tante serate speciali. Trasformare quell’Udinese in una grande realtà del calcio italiano è stato fantastico. Abbiamo vissuto una notte che sembrava non finire mai.

Che cosa prova quando l’Udinese sfida la Lazio? Va un po’ in crisi?

Faccio il tifo per la squadra che ha più bisogno di punti: la Lazio se deve andare in Champions, l’Udinese se deve salvarsi o arrivare in zona Europa. Sono stato benissimo a Roma. Alla Juve ho vinto uno scudetto e ho giocato in Serie B. Ovunque ho vissuto anni molto positivi.

Nel 2001 lei è tornato a Roma per indossare la maglia della Lazio: era il momento giusto?

Avevo 27 anni: a quell’età hai esperienza, hai già giocato ad alti livelli e riesci a gestire meglio le pressioni. La Lazio di Cragnotti era una grande piazza: l’Olimpico era sempre pieno e giocavamo in Champions League.

Perché il 5 maggio 2002 tutti pensavano che l’Inter avrebbe battuto la Lazio?

La cultura italiana ci porta a pensare così. In quella europea e inglese si gioca fino alla morte e i tifosi battono le mani anche alle squadre che sono retrocesse. Quel 5 maggio tutto lo stadio era tinto di nerazzurro. Tutti pensavano che l’Inter fosse venuta a fare una passeggiata. Era una partita molto importante e lo hanno sentito: nella ripresa non sono riusciti a fare due passaggi di fila, erano stati mangiati dalla tensione. Noi facemmo la nostra partita e vincemmo.

Lei ha giocato con Stankovic e Simeone: che cosa ricorda di entrambi?

Stankovic era giovane, ma già si intravedeva il suo talento. Simeone faceva della tenacia la sua forza e aveva lo stesso carisma che oggi mostra in panchina. Bastava seguire quello che facevano per crescere. Se i grandi campioni si allenano più di te allora sei portato a dare qualcosa in più. L’ho notato quando sono andato alla Juve. Mi avevano detto di arrivare 45 minuti prima dell’allenamento. Ero lì con un’ora e mezza di anticipo e c’erano già Del Piero, Nedved e Buffon. Quando vedi che loro fanno così tu provi a fare altrettanto.

In quella Lazio c’era Simone Inzaghi: si aspettava che sarebbe cresciuto così tanto come allenatore?

Mi ha sorpreso per la crescita che ha avuto. Simone conosceva tutti i giocatori dalla Serie D alla Serie A, gli attaccanti e le coppie gol dei top club. È stato bravissimo nella gestione di un gruppo che ha conosciuto piano piano. Ha reso tutti più forti: da Luis Alberto a Immobile che ha vinto la Scarpa d’Oro. Tutti dicevano che Milinkovic fosse bravo, grazie a Simone è diventato davvero un grande giocatore.

Come vede la Lazio del futuro? La mancata qualificazione in Champions peserà?

Nel girone di ritorno la Lazio ha espresso un buon calcio e avrebbe meritato un piazzamento nelle prime quattro. Purtroppo il brutto inizio ha destabilizzato la stagione. Le grandi società programmano in anticipo. Non credo che il futuro del club fosse legato alla Champions. Simone parlerà con Lotito e Tare. Non penso che la mancata qualificazione possa influire sul suo rinnovo.

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