Gianluca, prosa, non solo poesia

Dottor Jekyll e mister Hyde. Siamo tutti debitori di Robert Louis Stevenson e del suo «strano caso», poi diventato – nel linguaggio moderno – un bestseller. Gianluca Vialli, celebrato persino da coloro che gli avevano dato del gonfiato, se non, addirittura, del dopato, temeva di passare per fighetta: con quei riccioli sopra e quella famiglia dietro, così danarosa. E allora, quando si buttò sul calcio, al fioretto affiancò (e preferì) l’elmetto. Prosa, non solo poesia. Vietcong, non marine. Tourbillon, non papillon. La fama, pian piano, senza la fionda della fame. Con Romeo Benetti il «casato» non c’entra. Mediano di cemento, al fischio dell’arbitro si trasfigurava. Gianni Brera gli dedicò l’epiteto tedesco di «Maultier»: in italiano, mulo. Giocava nel Milan, zompò su un ginocchio di Franco Liguori, mezzala emergente del Bologna, e glielo spaccò. Eppure allevava canarini. Eppure, fuori, era quel che si dice «un pezzo di pane». Nel libro «Il Milan con il sole in tasca, gli anni 1986-1994», Giuseppe Pastore ricorda l’aneddoto che spinse Arrigo Sacchi a far cedere Angelo Colombo, il gregario asceso alle vette d’Europa: gli telefonò, un pomeriggio, e rispose il maggiordomo. Fece due più due, Arrigo, e dedusse che qualcosa, se non proprio «qualcuno», era cambiato. Figlio di Jurgen, professore d’informatica all’università di Dortmund, Mario Goetze non ha mai dato l’idea di essere un «docente» d’area. Firmò da «supplente» (appunto) la finale mondiale del 2014, al Maracanà di Rio, tra Germania e Argentina. La classica eccezione che conferma la regola di una carriera, di una vita. Bambino, Gerard Piqué nuotava nell’oro, tra padre avvocato-imprenditore e madre direttrice d’ospedale. Nel Barcellona ha coltivato il ruolo e il rango di pilastro difensivo, alla periferia del centro storico: Leo Messi, Andres Iniesta, Xavi, Sergio Busquets. Se proletarie erano le mansioni – spazzare le trincee, rammendare i buchi, avviare le «caldaie» – di un’eleganza algida e tagliente rimanevano la postura, lo sguardo dalle feritoie, l’andatura e il fiuto che lo invogliavano ad agghindare il tabellino. Banchiere-portiere: sembra quasi uno scioglilingua da cabaret, lontano dalla polvere gloriosa e suggestiva dei romanzi di Osvaldo Soriano. Viceversa, è lo «status» domestico di Hugo Lloris, titolare del Tottenham e della Nazionale francese. Di stile sobrio, al diavolo le bollicine. Papà Bierhoff è un ingegnere che «governò» la Rwe, azienda elettrica della Renania, non esattamente una pagliuzza. Oliver, lui, ha privilegiato la giungla e le bolge sotto rete alle comodità di un domicilio tattico che non gli avrebbe precluso, comunque, le coccole del loggione. Giorgio Chiellini, bi-laureato, è un livornese nato a Pisa (sic). L’augusto genitore faceva il chirurgo. L’erede lo ha fatto a modo suo, con l’anestesia razionata e il bisturi nascosto tra gli speroni. Ma in salotto, il più mite dei miti. «Convergenze parallele», le avremmo chiamate nel secolo scorso, all’alba degli anni di piombo: tragici in cronaca, euforici in tipografia.

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