Fulvio Pea: “Vi svelo i segreti di Matteo Pessina…”

Un acquario di segno zodiacale e di fatto. Un’innata propensione al cambiamento e a schivare il timore che questo può comportare. Tutto per Fulvio Pea è cominciato nel Lodigiano, terra di pallone in direzione Milano, dove il sogno di bambino è diventato realtà. Gigi Simoni è stato come un padre, Genova la città madre dove è sempre bello ritornare, l’incontro con José Mourinho quell’occasione di confronto e crescita che ha cambiato tante cose. Nel 2010 anche Pea ha alzato la Champions coi suoi ragazzi nerazzurri, poi è tornato in provincia dove ha lanciato Matteo Pessina, il ragazzo che sta facendo volare l’Italia di Mancini in questa estate di ripartenze e sogni collettivi. Anche Pea continua a cullarne, ma non dimentica mai di essere un uomo fortunato: quello che ha trasformato un gioco nel lavoro della sua vita.

Fulvio, nella sua vita c’è la Cina da un po’: come sta?

Da due anni: sono venuto a lavorare qui come direttore tecnico del settore giovanile del Jiangsu Suning, il club degli stessi proprietari dell’Inter. Dopo la Pro Piacenza avevo abbandonato la panchina ed ero andato a Livorno come responsabile del settore giovanile. Mi è piaciuto e ho deciso di proseguire in Cina. Fino al 28 febbraio quando, fra lo stupore di tutti, l’azienda Suning ha chiuso col calcio. Mi sono trovato in una situazione paradossale: da essere promosso come direttore tecnico a restare senza l’attività.

Nella sua carriera lei è abituato a rimboccarsi le maniche: non la spaventa cambiare?

Io sono un acquario e ogni tanto mi piace cambiare, anche ruolo. Questo è il mio trentatreesimo anno da allenatore, il ventitreesimo da professionista. La mia storia dice che ogni sei-sette anni io ho cambiato ruolo. La mente è molto importante, le motivazioni valgono tantissimo. Trovare nuove situazioni porta a dare sempre il meglio in contesti nuovi. Questo mi ha spinto a cambiare spesso senza subire traumi.

Lei ha vissuto una stagione travagliata col Monza nel 2014-15: come è nata?

Nessun professionista si aspetta di vivere una situazione simile. Siamo partiti il 1° luglio con l’ambizione di vincere il campionato con una presidenza che, negli anni precedenti, aveva pagato tutto regolarmente e aveva messo in piedi buone squadre. A distanza di due mesi ci siamo ritrovati in pieno fallimento senza una proprietà al comando. Così io, Alfredo Pasini e Gianni Califano ci siamo trovati a guidare il Monza.

Che problematiche c’erano?

Stipendi non pagati a calciatori e dipendenti. Ho condiviso la scelta di molti giocatori arrivati al Monza con l’ambizione di vincere il campionato. A dicembre eravamo terzi in classifica a 3 punti dalla prima, poi tanti di loro hanno lasciato la squadra e ci siamo ritrovati con nuovi calciatori. Avevamo raggiunto la salvezza. Ci sono stati inflitti punti di penalizzazione per gli stipendi non pagati e siamo stati costretti a fare i play-out. Abbiamo vinto con merito grazie a un giovane che ha fatto la differenza: Matteo Pessina.

Pessina ha esordito nel suo Monza: che cosa ricorda?

Nessuno conosce il percorso che ha portato Pessina all’esordio. Io e il mio preparatore Arturo Gerosa abbiamo lavorato con Matteo. Chi ha creduto tantissimo in questo ragazzo è stato il suo procuratore. Nell’estate 2014 io, i suoi genitori e il suo agente ci trovammo per stabilire un programma specifico per farlo crescere. Pessina ha fatto un percorso lungo per farsi trovare pronto. Il resto è venuto da solo.

Che tipo è Pessina?

Mi ha fatto subito una bella impressione. Ricordo un ragazzo maturo nonostante i suoi diciassette anni, molto intelligente, colto e soprattutto con un obiettivo da raggiungere, una cosa che non è così frequente nei giovani d’oggi. Poi Pessina non ragiona da calciatore, ma da uomo di atletica. Lotta sempre contro se stesso, deve sempre superarsi. In atletica è una cosa comune, nel calcio meno. Pessina è sempre più forte rispetto al giorno prima. Deve battere il suo ultimo tempo. Questo gli sta facendo fare la differenza. Poi se gioca dall’inizio oppure a gara in corso non c’è differenza. Sa che può essere protagonista sempre.

È stato sorpreso dall’Italia di Mancini?

Mancini ha dimostrato un’altra volta di essere un grande manager: ha preso in mano una Nazionale in difficoltà, ha saputo selezionare giocatori ambiziosi e ringiovanire la squadra. I suoi calciatori portano in campo la sua idea di gioco. Non perde da 31 partite. Ha aperto un ciclo da qualche anno e lo sta portando avanti con giocatori che stanno facendo la differenza per lo spirito e la qualità che ci mettono in campo.

Com’è nato il suo amore per il calcio?

Tanti bambini nascono col sogno di diventare calciatori. Io mi sono accorto velocemente che non lo avrei potuto realizzare così ho pensato di cambiare il mio ruolo restando in quel mondo. Sono cresciuto grazie ad alcune figure che ho incontrato nel mio percorso, come Aldo Jacopetti al Fanfulla di Lodi. Ho iniziato ad allenare a 21 anni. Poi sono andato all’Alcione e all’Inter dove ho conosciuto Roberto Samaden e Piero Ausilio. In Bulgaria al CSKA Sofia ho lavorato con Gigi Simoni, che mi ha portato nel mondo dei grandi.

Simoni è stato il suo padre calcistico? Che cosa le ha insegnato?

Il mister è stato determinante per la mia carriera. Fare tirocinio con un insegnante come Simoni è stato un colpo di fortuna. Mi ritengo un privilegiato per avere vissuto 6 anni al suo fianco. Mi ha insegnato tantissime cose anche dal punto di vista umano. Poi Gigi aveva dei valori che oggi sono quasi scomparsi.

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