Lavazza esclusivo: “Da Scirea a Sinner, le mie passioni”

Lavazza e sport è un matrimonio d’amore che genera interesse. Perché il ruolo di sponsorizzazioni e partnership ha contribuito in modo sostanziale alla crescita dell’azienda torinese, colosso mondiale del caffè, ma tutto nasce dall’autenticità della passione. Come quella del vicepresidente Marco Lavazza: «Lo sport tocca l’animo umano con una forza straordinaria. È una leva emotiva scientificamente inspiegabile, ma che smuove profondamente e regala momenti unici. Sì, c’è poco di razionale, arriva direttamente al cuore». Il suo ha battuto forte sulle piste da sci, soprattutto quelle di discesa libera, e in mezzo ai pali di una porta da calcio. Oggi, a 46 anni, ha portato il marchio Lavazza in tutti i tornei del Grande Slam, restando sportivo, anche praticante, e tifoso bianconero («Tifo Juventus in una famiglia con radici granata»).

«Il calcio ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dello sport in Italia. I famosi soldi della schedina sono quelli che hanno finanziato i movimenti che oggi consegnano all’Italia squadre di volley fortissime, sia a livello femminile che maschile, una buona squadra di basket, una generazione di tennisti molto interessante e un gruppo di sciatrici eccezionali. È importante, soprattutto, che anche gli altri sport stiano entrando nel cuore della gente. Il calcio deve temere la loro concorrenza ed è positivo».

In realtà, il calcio teme di perdere la Generazione Z per i videogiochi, i social network, le piattaforme di streaming e in generale per l’entertainment digitale da cui siamo circondati.
«Il mondo ha accelerato in modo impressionante la fruizione dell’intrattenimento e, soprattutto, ne ha personalizzato i tempi di fruizione. Non è facile tenere un ragazzo concentrato su una partita di novanta minuti, è un tempo lunghissimo per le nuove generazioni. E con i videogiochi giocano quando vogliono, così come le serie non le guardano a un orario stabilito da altri. Detto ciò, credo che lo sport e il calcio abbiano i mezzi per conquistare le nuove generazioni. Il calcio ha capito prima di altri che non era più solo una questione di agonismo e romanticismo, ha colto la sfida della globalizzazione diventando business. A me piace la professionalità di un certo calcio e devo dire che la Juventus questo concetto lo ha capito molto prima degli altri».

Com’è nato il vostro matrimonio con il tennis?
«Una lunga riflessione che ci ha portato a vedere in quel mondo la possibilità di parlare direttamente ai consumatori, di approcciare uno sport che non è mai divisivo o polarizzante e che alimenta valori positivi. Poi abbiamo trovato una singolare affinità geografica, realizzando che i luoghi che ospitano i tornei dello Slam erano esattamente quelli che ci interessavano di più per l’espansione del nostro business. Quindi siamo partiti dodici anni fa con Wimbledon e poi siamo arrivati a Flushing Meadows, Roland Garros e Australian Open».

Il ricordo più emozionante di questi dodici anni?
«Ce ne sono tre. La prima volta a Wimbledon è stata magia pura. Entrare in quel circolo è come entrare in un tempio e noi lo abbiamo fatto in punta di piedi, sapendo che lì le regole sono stile di vita. Ma è stato bello che, alla fine, siano stati loro a chiederci di tornare. Bello perché portiamo anche la bandiera dell’Italia che non sempre gode di un’immagine professionale all’estero. D’altronde la nostra… miscela è costituita dall’italianità, dal cuore, dalla passione, dalla tradizione, dalla volontà di costruire insieme e non solamente di sponsorizzare. Il caffè era un prodotto sottovalutato, glielo abbiamo raccontato in modo diverso, spiegando loro l’idea di pausa, ma anche di energia e di convivialità che può nascere intorno a una tazzina. E nei tornei dello Slam ne abbiamo servite in questi anni dieci milioni!».

Ci deve altri due ricordi emozionanti di tennis.
«Giusto. Secondo: la collaborazione con Andre Agassi. Lui è un personaggio mitologico nel tennis. Mi ricordo quando arrivò nel nostro palco a Flushing Meadows e lo stadio sembrò improvvisamente svuotarsi perché tutti si erano assiepati intorno a noi per vedere il mito».

Terzo?
«Le Atp a Torino. Per undici anni siamo andati in giro per il mondo a raccontare chi siamo e, a un certo punto, abbiamo avuto l’occasione di farlo nella nostra città, orgogliosi di poterlo fare a casa nostra. Perché siamo visceralmente attaccati a questa città. Siamo andati a conquistare il mondo, partendo sempre da qui, non abbiamo mai lasciato Torino, anzi non abbiamo neanche mai lasciato il nostro quartiere. L’idea di aver contribuito a portare le Atp Finals a Torino è motivo di orgoglio ed emozione. Anche perché sul periodo cinque anni c’è la possibilità di migliorare e, per esempio, la seconda edizione è stata già molto meglio della prima».

Dal corto muso al muso duro: la Juventus si fa rispettare

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