Krol piange Beckenbauer: “Franz eterno per talento e intelligenza”

Chi era Franz Beckenbauer per Ruud Krol?
«Per tutti, me compreso, una stella luminosa del calcio, ma non solo di quello degli anni ’60 e ’70, sia chiaro. E però io aggiungo anche altro: una splendida persona, con la quale ho avuto uno straordinario rapporto. Mi ha onorato dell’invito alla partita d’addio, in America, che per me resta indimenticabile. Fu un segno di amicizia e di stima».

Il padre dei leader di quel tempo, si può dire?
«Una figura carismatica, ricca di personalità, una autorevolezza che ti conquistava e che faceva presa su chiunque, compagni di squadra, dirigenti e pubblico. Se nel nostro mondo, a volte sbagliando, la statura dei personaggi si misura con i trofei, Franz ha vinto tutto e dunque sta nell’Olimpo. Ma lui per me è stato anche altro, l’uomo con quel suo stile, l’eleganza che portava in campo».

Vi dividevano quattro anni, vi accostavano – a volte – paragoni ispirati dal portamento regale di entrambi.
«Calciatori sostanzialmente diversi. Lui nasce centrocampista e scala, come si dice oggi, al centro della difesa. Io ero esterno, per usare un linguaggio dei giovani, e finisco in mezzo. Ma avevamo anche un modo di interpretare il ruolo non simile».

Germania-Olanda, finale della Coppa del Mondo del 1974: 2-1 per i tedeschi.
«Sono passati ormai cinquant’anni, diciamo che ho un ricordo nitido e sbiadito, contemporaneamente. Certe cose sono rimaste, altre sono volate via. È chiaro che volevamo entrambi quel titolo, ci mancherebbe, ma ho sempre sostenuto e lo ripeterò perché quella resta la mia sensazione, che noi non giocammo ai nostri livelli. Ciò non vuol dire che avremmo vinto, se fossimo riusciti a ripetere le prestazioni di quel tempo. Ma è andata».

Krol e Beckenbauer assieme.
«Non so quante volte sia accaduto, ma tante, anzi tantissime. Ed ogni volta era bello vedersi e raccontarsi. È stato, e rimarrà, un personaggio straordinario, fuori dal tempo, anzi eterno, come racconta il suo vissuto da calciatore, da allenatore, da dirigente. Se è consentito, e sono sincero, un uomo di un’altra dimensione che non può essere racchiuso solo in ciò che ha rappresentato in gioventù, che pure è tantissimo. Anzi, una enormità. Un modello per tantissimi».

Scelga un’immagine, una sola se può.
«Mi viene facile: lui che gioca, contro la Nazionale italiana a Città del Messico, con la spalla lussata e dunque il braccio fasciato e attaccato al corpo. Trasmise, di sé, la sensazione dell’irriducibile, dell’eroe. Franz è stato il calcio, sta tra i più grandi di ogni epoca, ha introdotto un metodo di comportamento, ha costituito un’idea innovativa, portandosi con sé l’esperienza e la classe che aveva da centrocampista: ma al talento va aggiunta l’intelligenza, non si diventa ciò che è stato lui senza averne in dosi massicce. E non si rimane a certi livelli, anche successivamente e in ruoli sempre diversi – il tecnico, il dirigente – se non ne sei in possesso».

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