Inter-Milan, la saggezza al comando

Undici sconfitte in campionato, e da ieri in finale di Champions. Inconcludente ed egemone, con due facce che attraversano la stagione, alternandosi in un’altalena di illusioni e delusioni. Poi, nel finale tutte le contraddizioni si ricompongono in una condizione finalmente eccellente, in un’intesa che ritrova le geometrie dello scudetto, in una concentrazione solidale che fa dell’Inter quello che Conte ha lasciato: una squadra capace di dettare legge e imporsi, ritrarsi ordinata a difesa della sua porta e allungarsi rapida in sovrapposizione portandosi al tiro, ma soprattutto in grado di spezzare sul nascere ogni tentativo del Milan di allungarsi e far valere il suo contropiede.

Inter-Milan, San Siro è uno spettacolo: le coreografie sono incredibili!

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Va in finale la squadra più matura nel momento decisivo della stagione, una congiuntura forse casuale, forse frutto di una catena di tentativi falliti e finalmente in grado di risultare fruttuosi. Va in finale la squadra tatticamente più saggia, capace di cinturare l’agibilità offensiva dei due milanisti più pericolosi, Leão e Brahim Diaz, con un raddoppio di marcatura che talvolta impegna quattro uomini e chiude ai due funamboli di Pioli ogni via d’uscita. Va in finale la squadra che recupera la regia di Brozovic, la visione di Calhanoglu, la duttilità di Barella, la diligenza di Dumfries, la ficcante percussione di Dimarco, e ne fa una mediana ubiqua e armonica, mai lunga, mai sfilacciata, sempre in rapporto con la difesa a tre, dove Acerbi riesce ancora a mettere tutta l’esperienza che ha, e a fare la differenza.

Torna a casa il Milan eterno bambino, mai capace di cogliere appieno gli appuntamenti decisivi che la storia gli pone davanti, esteticamente sublime, concretamente evanescente, capace di fallire nel primo tempo con i suoi uomini chiave, Leão e Brahim Diaz, due occasioni che nessun uomo chiave dovrebbe mai fallire. C’è nell’architettura di Pioli un’incompiutezza che lo scudetto non ha diradato e che smorza l’egemonia fisica, riduce il primato tecnico, frantuma il linguaggio tattico come una balbuzie del corpo e dello spirito. È un difetto non più congiunturale, che racconta un limite sul quale il ciclo rossonero si schianta prima di prendere il volo. Non è una circostanza che pos sa restare come un incidente di percorso, perché segnala un problema che inevitabilmente coinvolgerà la società e condizionerà le scelte del futuro prossimo. Il Milan che esce dalla Champions, e che deve sperare nella penalizzazione della Juve per prendere l’ultimo strapuntino del grande calcio continentale, è una squadra da rinnovare, i cui rincalzi sono stati, da De Ketelaere a Adli, un fallimento societario. Ma è soprattutto una squadra da raddrizzare, valorizzando talenti tatticamente a disagio, come a tratti lo stesso Leão, e superando un’intermittenza prestazionale che è inaccettabile per chi vuole comandare. La finale di Istanbul è in ogni caso un target ampiamente meritato per il calcio italiano, che vi approda con la formazione più in forma. Se c’è una squadra che può concretamente sfidare il primato di qualità e di esperienza di chi prevarrà oggi, tra City e Real, quella squadra è l’Inter. Questo risultato riscatta anche la tenacia di un tecnico tanto ferrato nelle sue convinzioni da apparire cocciuto. Ma la cocciutaggine nel calcio sta, allo stesso modo, al fallimento come al trionfo, poiché chiunque s’incaricasse di imputarla a qualcuno rischierebbe di essere smentito. Inzaghi ha smentito molti suoi detrattori e c’è da giurare che il traguardo raggiunto a San Siro abbia per lui un retrogusto di particolare intensità. Ha vinto mettendo le sue certezze contro i dubbi di tutti, dai quali pure s’è visto a un certo punto assediato. Adesso quelle certezze può portarle, come una fede segreta, sull’altare d’Europa e, almeno, sperare nella benevolenza di quell’architetto divino che guida, nel calcio, la direzione del caso.


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