Il gioco di squadra e i ladri di idee

La nostalgia per «quelli» dell’Ottantadue ha travolto ogni argine: politico, sociale e persino tattico. Il passato che non passa (per fortuna, per sfortuna) e il futuro che lo divora (per natura, per scelta) continuano a spaccare gli spunti e gli eserciti che li armano. I ladri di idee contro i guardiani del tempio, e di un tempo: sono i duelli che fanno la storia.  L’italiano medio è «felice» di essere individualista. Ma non è detto che il calcio di ieri, rispetto al calcio di oggi, ne sia stato schiavo, addirittura, come si millanta da alcuni pulpiti. All’epoca della doppietta mondiale 1934-1938, si narra che Vittorio Pozzo avesse escluso Fulvio Bernardini perché «giocava troppo bene e questo, ecco, avrebbe potuto condizionare negativamente il resto della squadra». E il fascismo non c’entra.  Nel 1948 il Grande Torino di Valentino Mazzola infl iggeva alla concorrenza la bellezza di 125 gol. Fra il 1950 e il 1951 il Milan del GreNo-Li arrivò a 118, la Juventus di Giampiero Boniperti e John Hansen a 103, l’Inter di Istvan Nyers, Naka Skoglund e Benito Lorenzi a 107. Inter che, nel 1953, si sarebbe poi aggiudicata il campionato segnandone la miseria di 46. Allenatore, Alfredo Foni: trasformò Gino Armano da ala in tornante e arretrò Ivano Blason dietro il bunker.

Insomma: studiavano e sperimentavano già allora.  Prendete lo spareggio-scudetto del 7 giugno 1964, BolognaInter 2-0. A parte la fi nezza bernardiniana di Johnny Capra a rompere la catena mancina di Mariolino Corso e Giacinto Facchetti, segnalo il secondo gol. Tocco fi ltrante di Romano Fogli, taglio di Harald Nielsen, abile nell’eludere sia la marcatura di Tarcisio Burgnich sia l’uscita di Giuliano Sarti. Quel vocabolo, «taglio», sarebbe diventato, nei secoli, il mantra di Zdenek Zeman e dei suoi funambolici triangoli.  E piombiamo all’11 luglio. Al raddoppio di Marco Tardelli. L’urlo non ha reso prigioniero soltanto l’autore: anche la trama. Dal diario di bordo: «Siamo al 24’ della ripresa. Manovrano i tedeschi, con Karl-Heinz Rummenigge che imbecca, o almeno ci prova, Paul Breitner, rincorso da uno dei nostri.

Non uno qualsiasi, però: Pablito. Un tipo che teneva casa e uffi cio nell’area degli avversari, mica nella sua. «Pressing» lo usavano i dotti; il popolo preferiva «azione di disturbo», una via di mezzo. E così, grazie alla generosità di un egoista di mestiere (Rossi), un altruista di vocazione, Gaetano Scirea, recuperò palla e cominciò ad avanzare; quindi Bruno Conti, ancora Rossi (dall’attacco alla difesa all’attacco: Houston, «non» abbiamo un problema), ancora Scirea fino al «tiki-tacco» con Beppe Bergomi nel cuore del fortino germanico e al lampo sinistro di Tardelli».  Scirea: il libero. Bergomi: un terzino-stopper di appena diciott’anni. Intenti, i trasgressori, a banchettare in faccia a un portiere che non era Dino Zoff . E lo chiamavano catenaccio: complimenti. Chi fu il capocannoniere della nazionale dell’europeista Arrigo Sacchi al Mondiale del 1994? Risposta: Roberto Baggio, lo stesso dell’italianista Giovanni Trapattoni alla Juventus. Tutto scorre, il «senno» del progresso non ha bisogno di silicone.

Precedente Mourinho e i tifosi della Roma meritano Dybala Successivo Toro-Joao Pedro: la fiducia è reciproca