Di Michele: “Voglio allenare come Spalletti. E quella volta che mi cercò l’Inter…”

Un muro sgretolato dalle pallonate, quella notte a Barcellona contro il più grande, poi la bella stagione inglese che gli ha spalancato le porte su un altro mondo. Oggi David Di Michele ha 46 anni e aspetta la sua prima grande avventura in panchina

Simone Lo Giudice

16 settembre

“Quando non riesci a fare gol tu, devi far segnare gli altri”. L’egoismo della ragione che non trionfa sempre, l’altruismo della volontà a renderlo un attaccante speciale. Storia di David Di Michele, il piccolo di Guidonia Montecelio cresciuto nel cortile di casa sotto il sole sognando di diventare come Bruno Conti. Lui e Francesco Totti si sono sfiorati appena: è successo alla Lodigiani quando il mito del numero dieci doveva ancora nascere, è ricapitato stagioni dopo quando la Roma ha cercato Di Michele senza però andare oltre. Udine è stata la città delle favole, Londra quella degli orizzonti rimasti fino ad allora inesplorati. L’ex attaccante con la Reggina nel cuore ha scelto da tempo la panchina senza farsi troppe domande. Le risposte gli arrivano ogni giorno dagli insegnamenti dei suoi maestri: uno su tutti Luciano Spalletti, re a Napoli oggi come lo è stato (e lo è ancora) Di Michele a Salerno.

David, che cosa l’ha spinta a diventare allenatore?

Quando giocavo ancora non pensavo di volerlo fare. Il mondo che girava intorno a chi sta in panchina mi faceva paura. Non volevo infilarmi in situazioni scomode e polemiche. All’inizio l’ho vissuto da esterno, come collaboratore, poi ha cominciato a intrigarmi e piacermi. Così è arrivata la voglia di allenare.

Che tipo di calcio le piace fare?

Quello moderno che vogliono fare tutti. Mi piace pressare alto. Preferisco giocare con il trequartista, ma non disdegno mettere le tre punte. Faccio un gioco offensivo. Mi ispiro a Spalletti, l’altro modello è De Zerbi. Luciano è un punto di riferimento a livello italiano ed europeo. Sta facendo grandi cose al Napoli, a Roma ha fatto altrettanto in passato. In Italia poi contano i risultati.

Lei ha iniziato allenando i giovani: che cosa ha appreso da questa esperienza? Si rivede un po’ in loro?

Ringrazio il Frosinone per avermi dato questa opportunità. Sono stati una rivelazione. Stare con i giovani è bello. Mi hanno fatto divertire tanto. Voglio condividere con loro il mio passato. Cerco di fargli capire che cosa devono fare fuori dal campo, come devono rapportarsi. Sanno di dover rispettare le regole. Il calcio non è solamente portare una maglietta e giocare. Dietro c’è tutto un mondo. Cerco di insegnargli a curare ogni piccolo particolare.

Com’è nato Di Michele calciatore?

Mio padre giocava per passatempo. In famiglia guardavamo tutti il calcio, si parlava solo di quello. Giocavo nel cortile sotto casa a Guidonia Montecelio: così è nato il mio passato, il mio presente e il mio futuro. Sono cresciuto a due passi da Roma e ho sempre simpatizzato per la sponda giallorossa.

Lei è cresciuto calcisticamente nella Lodigiani che ha sfornato tanti talenti: Francesco Totti in primis…

Sono arrivato nell’anno in cui Francesco è andato alla Roma. C’è stato un passaggio di testimone tra noi. La Lodigiani è stata fondamentale per me perché mi ha dato l’opportunità di cominciare nel calcio professionistico.

Aveva un modello da ragazzo?

Mi piaceva tantissimo Bruno Conti. Da lui ho imparato a giocare con il sinistro: mi allenavo tutti i giorni contro il muro sotto casa per migliorare sotto questo punto di vista. Volevo imitarlo. Se oggi so calciare con entrambi i piedi lo devo a lui.

Lei è stato un attaccante generoso: meglio segnare oppure fare un assist?

Se superavo l’uomo in alcune circostanze non ero egoista, così ho fatto assist importanti per i miei compagni d’attacco. Quando non riesci a fare gol tu, devi far fare gol agli altri.

Secondo lei nel calcio di oggi si supera l’uomo con meno frequenza?

Vedo tanti calciatori puntare l’avversario, forse c’è meno qualità nel dribbling. Nelle scuole calcio bisognerebbe tornare ad insegnare ai ragazzi l’importanza della tecnica. Servirebbero più lavori individuali.

Per la gente di Salerno lei è ancora Re David?

Mi chiamano ancora così e li ringrazio. È rimasto un legame importante tra me e la piazza. Io ho dato tanto, loro hanno fatto altrettanto. Tornare a Salerno è come tornare a casa, è come se non fossi mai andato via. Sono felice per quello che sono riuscito a fare lì. I tifosi sono un fattore importante. Nel bene e nel male si stringono intorno alla squadra, cercano di aiutare e spronare sempre. I giovani che arrivano devono essere pronti. A volte questo grande calore per qualche ragazzo più introverso può essere un problema. È difficile spiegare che cosa significa Salerno per un calciatore.

Si è parlato troppo degli errori arbitrali in Juventus-Salernitana secondo lei?

Sì, perché la Salernitana ha avuto il pallino del gioco a Torino, a parte nei primi 15 minuti del secondo tempo. Ha giocato con tranquillità e serenità. Mi ha impressionato la sua capacità di palleggio. Sembrava che la Salernitana fosse la Juventus. Il pareggio le è andato molto stretto. La squadra è consapevole dei suoi mezzi e ha una grande mentalità. Nicola sta facendo un lavoro incredibile. Lo scorso anno è stato fatto un miracolo, quest’estate la squadra è cambiata ma non ha perso la sua identità.

Il calcio di Nicola è più coraggioso di quello di Allegri?

Sì, sono rimasto impressionato da questo. Da tempo non si vedeva una squadra dominare così nettamente sul piano del gioco in casa della Juve. Loro hanno campioni che risolvono le partite con giocate singole. La gara doveva finire 3-0 per la Salernitana.

A proposito di Salerno: com’è stato avere Rino Gattuso come compagno di squadra?

Bellissimo! È arrivato dai Glasgow Rangers e si è subito calato nel nostro spogliatoio. Non è facile farlo a gennaio. Lui è diventato un leader con grinta, entusiasmo e personalità. Io, Gattuso e Di Vaio stavamo sempre insieme. Eravamo un gruppo di giovani di grande prospettiva. Faccio un grosso in bocca al lupo a Rino per la sua carriera. Sono certo che lo rivedremo presto in Italia.

Lei conosce bene Andrea Sottil tecnico rivelazione in Serie A: le piace la sua Udinese?

Ha fatto cose strepitose negli ultimi anni. Penso al percorso che lo ha portato da Catania ad Ascoli. Quest’anno si è superato. Non è mai facile arrivare in una squadra di Serie A dove hai giocato e dove sai che sbagliare può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Non mi meraviglia vederlo su una grande panchina. L’Udinese ha un’identità forte e una società che sa gestire bene queste situazioni.

Che cosa ricorda della Champions disputata con l’Udinese? Ha chiesto la maglia a Ronaldinho a fine partita?

Ho giocato anche Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, ma non ho scambiato la maglia con nessuno dei tre. Per Ronaldinho mi ero messo in fila, ma non sono riuscito a prenderla. Quell’Udinese ha fatto un’impresa impensabile. Avevamo un’ottima rosa, un grande allenatore e una società importante. Quel mix ci ha aiutato a fare un bel campionato centrando una storica qualificazione.

Di Michele, Iaquinta, Di Natale è stato uno dei tridenti più belli di sempre?

Sicuramente uno di quelli più spettacolari in cui ho giocato. Ci hanno visto un po’ in tutta Europa. Nel 2006 ho sperato di andare al Mondiale come Vicenzo. Ci credevo molto. Purtroppo ho perso 4-5 mesi che gli altri invece hanno fatto molto bene, così si sono abbassate le mie percentuali. Ho giocato con tanti futuri campioni del mondo: penso a Grosso, Barzagli e Barone al Palermo.

Lei è stato compagno di Handanovič che si gioca il posto con Onana: cosa ne pensa dell’alternanza dei portieri?

Penso che servono due portieri forti, ma poi bisogna scegliere un titolare. Serve un punto di riferimento, se non ce l’hai puoi andare in difficoltà. Poi devi fare delle scelte in base a quello che hai sotto gli occhi ogni domenica. Noi abbiamo visto Samir crescere e sapevamo chi era e chi sarebbe potuto diventare. È un capitano silenzioso che sa parlare e dire le cose giuste alla squadra.

Mi racconta quella volta in cui è andato in porta al posto di Handanovič?

Era Lecce-Udinese in Coppa Italia. Vincevamo 4-3, mancava poco alla fine. Handanovič in uscita prese in pieno un giocatore del Lecce e fu sanzionato con l’espulsione e con il calcio di rigore. Mi piaceva mettermi in porta dai tempi di Salerno, però Spalletti voleva che ci andasse Muntari. Ho fatto di testa mia. Ho preso la maglietta di Handanovič, sembravo Sbirulino perché mi arrivava sotto le ginocchia. I suoi guanti erano enormi. Bojinov e Vučinić si erano messi a litigare per battere il rigore. Regnava il caos. Ha tirato Mirko. Ero convinto che sarebbe stato gol al 99,9% così sono rimasto in piedi il più possibile. Mi sono buttato da una parte, il tiro però era centrale e col piede sinistro l’ho respinto. Poi è finita. Spalletti mi è venuto ad abbracciare. Mi riusciva tutto allora.

È mai stato vicino ad una big nella sua carriera?

Inter e Roma mi hanno cercato. Potevo andare a Milano quando ero alla Salernitana nel 2000. I giallorossi mi volevano quando giocavo nell’Udinese e poi nel Torino. A 32 anni avrei potuto coronare un piccolo sogno, peccato non esserci riuscito.

Che cosa le ha lasciato la stagione al West Ham?

Ho vissuto uno degli anni più belli della mia carriera. Tornassi indietro andrei in Inghilterra a vent’anni. Giocare in Premier League fa maturare prima. Loro ci mettono grande passione, ricordo che passavano otto ore al campo. C’era Gianfranco Zola in panchina. In campo Craig Bellamy: un tipo particolare, molto istintivo, spesso polemico.

Oggi al West Ham c’è Scamacca, un altro italiano: che cosa gli consiglia?

Gli dico di provare a calarsi subito nella realtà della Premier, di imparare la lingua perché loro ci tengono tanto. Gli italiani non sono visti di buon occhio perché secondo loro vogliamo lavorare poco. Se gli mostri il contrario allora ti apprezzano di più.

Dopo l’Inghilterra, lei è tornato in Italia ed è andato a Lecce: che piazza ha trovato?

Una realtà bella e importante del nostro calcio. Lecce ti dà tantissimo, ti fa sentire in famiglia. Sta facendo grandi cose. È stato fatto un grande mercato. Non è facile prendere giocatori sconosciuti e bravi, ma Corvino ci ha spesso lasciato a bocca aperta.

Come vede Salernitana-Lecce?

Sarà una bella partita, entrambe fanno un bel calcio. La Salernitana di Nicola ha dimostrato già tutto il suo valore. Giocarci contro è stimolante, ma bisogna stare molto attenti. Il Lecce ha le armi giuste per fare una bella gara.

Della Reggina che cosa mi racconta invece?

Ci ho giocato agli inizi, poi ci sono tornato per chiudere la carriera. Ha vissuto momenti tragici come la Salernitana. Il presidente Gallo voleva vederla in Serie A, poi è successo di tutto. È arrivato Cardona che ha portato grandissimo entusiasmo partendo dalle basi. Ha preso Pippo Inzaghi come allenatore: è un lusso per la B, con una squadra fatta in quattro e quattr’otto è primo. Anche Taibi come dirigente ha fatto un grandissimo lavoro. I giocatori hanno avuto poco tempo per conoscersi, eppure sono in testa.

In Serie A manca solamente il Palermo, un’altra squadra a cui è legato molto…

Sì, piano piano si sta facendo largo in Serie B. Sarà difficile vederlo presto in A insieme alla Reggina, Salernitana e Lecce ci sono già. Dovesse capitare sarebbe bellissimo.

Che cosa si augura per il suo futuro?

Lascio tutte le porte aperte, anche l’estero. Se vuoi allenare devi essere capace e intelligente da capire come muoverti. Bisogna andare dove ti vogliono. Mi piacerebbe continuare in Italia perché conosco i calciatori, ci sono tanti amici con cui ho giocato. Vorrei allenare prime squadre, penso alla Primavera. Vorrei guidare ragazzi che possono dare qualcosa in più rispetto ai giovani.

Oggi lei fa l’allenatore e il papà: ha anche qualche hobby per scaricare la tensione?

Gioco a padel come tutti. Mi aiuta a restare in movimento e a non lasciare niente al caso.

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