67 scudetti fuori dalla lotta per il Tricolore: Juve, Inter e Milan mai così giù in classifica

Per la prima volta le tre grandi non possono vincere il campionato a sei turni dalla fine

Non era mai successo che, a sei turni dalla fine, Juventus, Inter e Milan fossero ormai tutte fuori dalla lotta scudetto. Complessivamente le tre big del nostro calcio hanno vinto 67 scudetti su 90 a girone unico. E solo in tre tornei (l’ultimo nel 1942…) nessuna di loro è arrivata tra le prime tre. Viaggio nei motivi di una flessione mai così forte.

Fuori dalla lotta scudetto quasi subito. Fuori dalla Champions in maniera umiliante, con cinque sconfitte e almeno tre prestazioni inaccettabili (per atteggiamento prima che per gioco) in casa di Psg, Maccabi e Benfica. Fuori dalla Coppa Italia in una semifinale dai nervi tesissimi con l’Inter. La stagione della Juve sfiora il disastro. Può essere salvata dall’Europa League e da un piazzamento Champions, ma il futuro è tutto da scrivere con i due processi in svolgimento, il ricorso alla Corte Ue (dalle conseguenze oggi imprevedibili) e il problema del Fair play finanziario con l’Uefa. Certo gli alibi non mancano per Allegri e i giocatori. Intanto gli infortuni in serie: Pogba mai disponibile; Chiesa rientrato ma lontano da quello devastante dell’Europeo; Di Maria, Milik e Bonucci più in tribuna che dentro; e una media complessiva di un ko a partita. Però alcune situazioni sono figlie di errori di mercato, vedi l’addio a Dybala (in cambio di un Pogba molto più assente). Poi la penalizzazione che ha oscurato a lungo l’orizzonte e depresso gli animi: i 15 punti sono stati temporaneamente restituiti, ma una nuova punizione arriverà in ogni caso. Infine le dimissioni di Agnelli e la questione Superlega, comunque destabilizzanti. Gli alibi però non bastano a spiegare. Allegri è stato bravo a metterci la faccia e a gestire l’emergenza (un po’ meno la quotidianità). Ma di recente lui ha dato segni di nervosismo, soprattutto quando la squadra è sembrata sfuggirli di mano. La Juve ha mostrato qui e là compattezza e carattere, ma il gioco è stato spesso rinunciatario, noioso, ispirato al vecchio primo comandamento: “difendersi”. La cosa più grave è il rendimento collettivo e dei singoli in relazione al potenziale non indifferente: Vlahovic era il rivale di Osimhen e oggi è un attaccante che non vede più la porta, anche perché è fuori dagli schemi. Possibile che in un anno abbia disimparato tutto? E poi: Bremer non è stato continuo, Paredes una delusione, Alex Sandro involuto, Di Maria fenomeno con troppe pause. La svolta Szczesny, Perin, Rabiot, Danilo, Locatelli e i giovani Fagioli, Miretti, Iling e Soulé hanno tenuto in piedi la baracca nei momenti più complicati. Ma è difficile sfuggire all’impressione di un gioco anarchico e troppo legato all’ispirazione dei singoli. Oltre ai risultati servirà una svolta ideologica.

Inspiegabile ma vero: quest’anno esistono due Inter quasi opposte. Una, cinica e compatta, da eliminazione diretta. L’altra, discontinua e fragile, per il campionato. I nerazzurri sono in semifinale di Champions dopo aver superato meritatamente Barcellona, Porto e Benfica, e non importa che nessuna fosse al top. Sono in finale di Coppa Italia dopo aver eliminato la Juve. E hanno vinto la Supercoppa travolgendo il Milan. Al contrario, in Serie A sono 57 punti (-9 rispetto all’anno scorso), in coabitazione con Milan e Roma al 4° posto: la qualificazione alla Champions non è scontata. Sono stati due i momenti cruciali nella crisi. All’inizio del torneo, con le quattro sconfitte nelle prime otto giornate (Lazio, Milan, Udinese e Roma). E al ritorno dal Mondiale, dopo che l’1-0 con il Napoli aveva illuso: tra la 19° e la 30° giornata i ko con Empoli, Bologna, Juve, Spezia, Fiorentina e Monza hanno definitivamente scavato un fossato con il Napoli. Giocatori distratti, partite scivolate via senza reazioni convinte, errori imperdonabili in zona gol, un gioco spesso prevedibile e monotono. La teoria che attribuisce tutte le colpe a Inzaghi regge fino a un certo punto. Di sicuro il tecnico ha mostrato poca flessibilità nei momenti chiave, quando sarebbe stato consigliabile cambiare sistema di gioco se non interpreti (vedi l’insistenza sulla difesa a tre e su Correa). In più, le liti a cielo aperto (Lukaku-Barella, Onana-Brozovic e non solo) e alcuni atteggiamenti di evitabilissimo nervosismo in campo hanno rivelato uno spogliatoio in tensione e non sempre sotto controllo. Per non farsi mancare niente, Inzaghi ha polemizzato in via indiretta con la società sentendosi scaricato. Ma è altresì vero che il tecnico è stato bravo a reinventare Calhanoglu play senza far rimpiangere Brozovic, e coraggioso nell’impiegare Darmian centrale e Mkhitaryan mezzala. Non è colpa sua se Skriniar ha pensato al Psg e se si è ritrovato un Lukaku controfigura di quello di Conte (ma non è neanche riuscito a risollevare il belga). La stanchezza post-Qatar di Lautaro, l’età di Dzeko, la discontinuità di Dumfries e Gosens, i dolori di crescita di Bastoni: quale che sia l’esito delle coppe, il futuro richiede interventi. Inzaghi è riuscito a aggiustare alcuni guasti non dipendenti dalla sua volontà, ma ogni tanto ne ha creato qualcuno evitabile. Peggio ancora la gestione mediatica: l’insistenza sui successi è un’arma a doppio taglio se il vanto sono una Coppa Italia e una Supercoppa. Con tutto il rispetto non obiettivi primari per un club come l’Inter.

Un mercato diverso avrebbe reso sicuramente più facile la vita del Milan. Non tutte le responsabilità sono dei nuovi arrivati, ma Pioli aveva bisogno di un serbatoio più affidabile per provare a confermare uno scudetto già miracoloso. Sono invece arrivati Dest, Adli e Vranck (fantasmi), l’involuto Origi, Pobega lentamente uscito dai radar, e De Ketelaere che, da erede potenziale di De Bruyne, s’è trasformato in un giocatore senza ruolo e dalla personalità flebile come il fisico troppe volte per terra. L’unico prezioso, anche se in una finestra di tempo ridotta, è stato Thiaw: quando la crisi s’è fatta profonda, e il tecnico ha deciso per una formula tattica più difensiva, il giovane tedesco è stato il migliore al centro della linea a tre. Nelle ultime uscite a quattro, però, il rendimento è stato lontano da quei vertici. Il cambio di sistema — e di ideologia, come ha rimproverato Sacchi — è servito a ricompattare il gruppo ma ha fatto perdere Leao che, non a caso, è tornato lui quando il Milan ha riproposto l’attacco a tre. Ci sono più giocatori che possono fare la differenza rispetto all’Inter: il portoghese, Theo che sta però pagando il Mondiale, l’onnipresente Tonali e Maignan la cui assenza per infortunio è stata un colpo al cuore. Non è facile quantificare i punti persi, ma sono comunque tanti: il portiere è un top player come Leao. La rosa non ricchissima ha costretto Pioli ha spremere oltremisura gli “indispensabili” (Tonali, Theo, Tomori), ma in alcuni ruoli chiave sono mancate alternative credibili, soprattutto al centro di un attacco guidato dal 36enne Giroud. Il momento peggiore è stato a gennaio, quando è sembrato che il Milan stesse implodendo: Pioli è finito in discussione dopo lo 0-4 con la Lazio e il 2-5 con il Sassuolo. Anche a marzo il meccanismo s’è inceppato. Il bel gioco è stato dispendioso. Con City o Real all’orizzonte, sia il Milan sia l’Inter devono conquistarsi la Champions con il campionato prima di fare sogni di gloria europea. Il Milan sta vivendo un po’ la bipolarità dei cugini: due successi nelle ultime otto giornate, uno dei quali, il 4-0 al Napoli, è stato però la chiave psicologica per vincere il quarto di finale di Champions. Ma in Serie A i 57 punti, e il fiato dell’Atalanta sul collo, non garantiscono niente.

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