Il cielo è azzurro sopra l'Italia

Esattamente un anno fa, il 12 giugno, il calcio italiano ripartiva con una semifinale di coppa tra Juventus e Milan. Quella partita segnò la fine di un’estenuante battaglia di princìpi e urgenze condotta da Gabriele Gravina, Paolo Dal Pino e da questo giornale. Gli italiani non sapevano cosa li aspettasse: navigavamo a vista sotto un bombardamento di numeri e informazioni spesso confusi, talvolta imprecisi, fonti di incertezze, di continue polemiche e pericolose dietrologie. Gli ottimisti garantivano che il virus sarebbe stato sconfitto con il caldo, ma i tempi di realizzazione del vaccino – secondo gli esperti di tutto il mondo – variavano dai sei mesi all’anno e mezzo. Se non addirittura ai due anni. Non ci sentivamo liberi, non lo eravamo affatto. Restare in casa era un obbligo, il coprifuoco una necessità. Chiusi gli stadi, le scuole, i cinema, i ristoranti, gli alberghi, le palestre, le piscine. E anche numerosi cervelli. Spianato il turismo, il nostro petrolio. Tutto risultava rinviato, ovviamente anche lo sport: ogni Mondiale programmato, gli Europei di calcio, le Olimpiadi.

C’erano dirigenti e politici che remavano contro per interessi personali, i virologi, gli immunologi, gli epidemiologi frequentavano le tv più di Barbara D’Urso e Amadeus. La morte, i suoi bollettini, erano diventati scadenze fisse e sempre più tragiche.

Dodici mesi dopo molto è cambiato. Innanzitutto siamo cambiati noi. Noi che quando ci incontriamo fatichiamo perfino a riconoscerci poiché siamo ancora tagliati a metà dalle mascherine. Le prime domande che poniamo sono sempre le stesse da settimane: «Hai fatto Pfizer, AstraZeneca, Moderna o Johnson?», «il vaccino ti ha dato dei problemi?», «io giusto un po’ di febbre, e tu?», «lo sai che il tale che conosco a sei mesi dal contagio non ha ancora recuperato olfatto e gusto?». Naturali, inevitabili curiosità. Tuttavia si respira un’aria diversa. Non abbiamo ancora ritrovato la normalità perduta e il passato remoto è diventato un presente in remoto. Ma forte è la sensazione del rimbalzo.

Per evitare imbarazzi e critiche, chi – come noi – scrive di sport ha subito abolito parole, luoghi comuni e formule che fino a sedici mesi fa erano di uso frequente quali “febbre”, “entusiasmo contagioso”, “positività”. Non conosce alcun disagio chi si ostina a ripetere che quel video o quel meme è “diventato virale”.

Questo bel pippone per introdurre l’Europeo un po’ italiano, e fisicamente romano, che attendevamo con ansia. Un torneo al quale chiediamo di offrire emozioni, spettacolo e un po’ di gioia. Azzurra, naturalmente.

Stasera si tolgono finalmente la maschera i ventisei di Mancini, che da calciatore ebbe un rapporto complicato con la Nazionale maggiore, mentre della Under di Vicini fu uno dei protagonisti. Il ruolo del ct è perfetto per Roberto, anche se ogni tanto si lascia prendere dalla nostalgia per il lavoro quotidiano. Gli passa in fretta. Per affrontare questa avventura si è circondato di nuovo dei compagni della vita: Luca, Attilio, Chicco, Giulio, Fausto, Lele. Lo conosco dal 1980, ma mi chiedo spesso cosa lo spinga a non staccarsi da loro, talvolta a imporli. Ci sono stati momenti in cui ho pensato che dipendesse da una sorta di insospettabile insicurezza, figlia dell’introversione che con gli anni e l’esperienza ha imparato a mascherare. Anche fuori dal campo gli amici di oggi sono quelli di quarant’anni fa, qualcuno si è perso, i più resistono. Non cambia gli amici, Roberto, ma i giocatori sì. Ha un’idea liquida del calcio e coltiva la sfrenatezza delle scelte. È sempre partito, però, dalla qualità: straordinaria è la sua capacità di individuarla in giocatori apparentemente in declino (Veron, Stankovic, Mihajlovic) e in talenti non ancora compiuti (Zaniolo, Kean, Raspadori) oppure destinati all’incompiutezza (Balotelli).

Nei giorni della vigilia mi ha molto rassicurato un telefonata di Daniele De Rossi, l’ultimo arrivato nel team azzurro: per questo gruppo, che ha perso purtroppo Lorenzo Pellegrini e Sensi, ha speso parole bellissime e di sorprendente fiducia. È anche, se vogliamo, un modo di vedere la vita, quella ideale o di tutti i giorni, con la famiglia, il lavoro, le delusioni, le gioie. Preferendo queste ultime, con l’ottimismo della ragione e della volontà, cosí ben rappresentate dall’abbraccio spontaneo e leale dei “ragazzi” dopo il gol. «Viviamo in un mondo dove domina la virtualità. Un mondo di mascherine. Il grande scopo di questo Europeo è farci capire, attraverso i test con avversari di livello superiore, quanto valga realmente la più spiazzante delle Nazionali.

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