Vialli: “Il mio calcio, lo scudetto con la Samp, l’Italia, la malattia… “

L’ex bomber, capo delegazione dell’Italia fino a qualche giorno fa, nella lunga chiacchierata con la Gazzetta dell’ottobre 2020: “Ancora oggi gli juventini mi dicono: ‘Lei è l’ultimo capitano che ha alzato la Champions’…”

Walter Veltroni

6 gennaio – Milano

Mi ha commosso, in tv, vedere fianco a fianco in panchina Luca Vialli e Roberto Mancini, per due motivi. Uno che riguarda te, Luca, e uno che riguarda voi due insieme. “Era una situazione eccezionale, mancava Oriali. Di solito va lui in panchina con Roberto e io mi siedo in tribuna, di fianco al presidente, perché le mie non sono mansioni tecniche. È stato emozionante, non mi sedevo su una panchina da vent’anni, quando allenavo il Watford. Ma soprattutto lo è stato sedermi di fianco a Roberto in una posizione diversa dal solito. Abbiamo passato tanto tempo vicini, ma in campo. Accompagnarlo ha risvegliato ricordi e forti emozioni”.

Per te rientrare nella Nazionale cosa significa?

“È bello, mi dà l’opportunità di fare quello che voglio fare adesso nella vita: ispirare le persone. Ho trovato un’organizzazione perfetta, un ambiente ideale, il rapporto tra lo staff, i giocatori e i magazzinieri, i massaggiatori… sembra che tutti si vogliano bene e siano felici di essere qua. Merito del presidente Gravina, che ha trasformato la Nazionale in un club, e di Roberto, che è riuscito a creare un’atmosfera veramente molto bella”.

Il calcio senza pubblico è una specie di ossimoro, come il distanziamento sociale…

“Sì e non è bello. Quando lo guardo in tv devo mettere l’opzione per ascoltare il tifo, so che è finto, però senza mi sembra di vedere una partita d’allenamento. Il calcio si gioca in uno spazio particolare dove sei nudo in un’arena davanti ad un pubblico. È meraviglioso, ma terrorizza e se non c’è pubblico non è la stessa cosa, sia per chi fa il calcio sia per chi lo vede da casa”.

C’è un po’ di confusione in questa vicenda calcio-Covid. Da dove bisogna ripartire?

“Dalle regole che devono essere certe, dal rispetto verso queste regole e dell’autorità che decide, dal rispetto della salute dei calciatori e di tutti quelli che fanno parte dell’ambiente. E da molto buon senso: bisogna dimenticare gli interessi personali o di parte per fare l’interesse del movimento. Dobbiamo trovare il modo di continuare a giocare nelle condizioni più sicure possibili”.

Ci si rende conto che il calcio è un gioco che fa buona parte del prodotto interno lordo di questo paese?

“A volte sì, ma altre si pensa sia soltanto un gioco. Il calcio è un gioco che però è diventato un business che regala emozioni e ricordi a chi lo guarda, muove tanti interessi economici e produce lavoro. Abbiamo il dovere di fare il possibile perché questo business non si fermi. Per l’aspetto economico, ma anche per dare alla gente emozioni, ricordi e felicità”.

Ricordi il primo pallone della tua vita?

“Era un pallone arancione di plastica. Qualcuno ha detto che per avere successo nella vita devi capire presto e con chiarezza quello che vuoi fare da grande. Io credo di averlo capito subito. Una volta, a due anni, così mi ha raccontato mia mamma, ho dato un calcio a quel pallone arancione, mi sono innamorato e ho deciso quello che avrei voluto fare per tutto il resto della mia vita”.

Se dovessi dire a un bambino cosa è il calcio… Gli dai il pallone arancione e gli dici…

“Che è gioia, ti permetterà di crescere, di migliorare, di imparare a stare in un gruppo, il rispetto delle regole, a rialzarti quando hai una battuta d’arresto e a cercare di superare sempre i tuoi limiti. E poi di non arrendersi se qualcuno ti dice che non hai talento. Il talento può essere la fine di un percorso, non necessariamente l’inizio. Bisogna sempre imparare. Bisogna avere doti che non hanno a che fare col talento: la determinazione, il rigore, l’abnegazione, l’energia, l’etica, la serietà, la puntualità… Il talento può essere un dono, ma anche una conquista”.

Quanto di tutto questo ti è servito nella battaglia più importante contro il tumore?

“Non l’ho mai considerata una battaglia, perché ho sempre pensato che il cancro è meglio tenerselo amico. L’ho sempre considerato un compagno di viaggio che avrei evitato. Adesso cercherò di farlo stancare, in modo che poi mi lasci proseguire. Comunque sì, questo modo di intendere la vita mi è servito molto, perché se fai il calciatore impari la disciplina e quindi accetti certe cose che devono essere fatte durante la malattia, impari a non lamentarti. La vita è per il dieci per cento quello che ti accade e per il novanta quello che tu produci con intelligenza, passione, capacità di reazione”.

Il momento più bello della vita da calciatore?

“Tanti: vincere lo scudetto con la Samp, sicuramente. Era la prima volta della storia, completavamo un percorso, dimostravamo che davvero Davide può vincere contro Golia. Prima ancora ero nella Cremonese che tornò in A dopo cinquant’anni. Alla Juve, poi, la vittoria in Champions. Ancora oggi la gente mi dice: “Lei è l’ultimo capitano che ha alzato la coppa”. Per un paio d’anni questa cosa mi aveva fatto anche piacere, adesso dico: “Ma come? E tutto il resto che ho fatto, se lo sono dimenticato?”. E poi mi piacerebbe essere stato il capitano che ha vinto la coppa di una società che la coppa se la deve assicurare almeno un anno sì e tre no. Anche da allenatore ho avuto momenti di grande soddisfazione. Vorrei dire che sono stato fortunato, però se lo dico svilisco il culo che mi sono sempre fatto”.

Cosa può fare questa Italia?

“Può fare molto bene. Sono rimasto impressionato dalla bravura di Roberto che ha capito subito che il c.t. non può essere un rivoluzionario, non può portare un sistema rivoluzionario perché non c’è il tempo, ma non deve neanche essere un conservatore. Lui fa un calcio efficace, offensivo, innovativo che piace molto ai giocatori che l’hanno capito, quindi lo mettono in pratica con grande efficacia. E poi è un gruppo molto giovane. Avremmo voluto giocare l’Europeo, però un anno in più forse ci dà l’opportunità di crescere. Arriveremo a giugno più forti di quanto lo saremmo stati nel 2020”.

Chi è il centrocampista che ti faceva i lanci più belli?

“Sono stato molto fortunato perché ho giocato con Roberto Mancini, Roberto Baggio, Alessandro Del Piero, Gianfranco Zola. Cioè i quattro migliori numeri 10. Manca Totti, perché è più giovane di me. E io mi sono fatto un mazzo così per loro, che avevano meno attitudine alla corsa rispetto a me. Però mi hanno sempre ripagato con assist incredibili. Con Roberto scherzo sempre: “Ogni tanto tu buttavi la palla avanti, io la prendevo, la mettevo giù, stop impossibile, controllo surreale, ne scartavo due o tre, facevo gol e il giorno dopo leggevo sui giornali “gol di Vialli, ma grande assist di Mancini””.

Boskov diceva: “Uomini non piangono quando perdono partita”. Tu hai pianto?

“Sì, dopo la finale di Champions a Wembley contro il Barcellona, con un gol di Koeman a pochissimo dalla fine. Sapevo che sarebbe stata la mia ultima partita in blucerchiato e quindi c’era, dal punto di vista emozionale, un doppio carico. Anche Roberto era molto deluso e nello spogliatoio, quando tutti se n’erano andati, abbiamo cominciato a piangere. Boskov entrò e ci disse: “Uomini non piangono, quando perdono partita”. Ma io non ci ho mai trovato niente di cui vergognarsi. È giusto e l’ho imparato anche in quest’ultimo periodo. Me lo dice sempre mia moglie: se hai qualcosa dentro, devi farlo venire fuori. Se devi piangere fallo, piangi, emozionati. Sono sempre stato d’accordo con Boskov, ma non in questo caso”.

C’è qualcosa nel calcio che vuoi ancora fare?

“Sì, è per questo che vorrei vivere ancora per qualche anno almeno, ho tante cose che voglio fare. Sono felicissimo di fare il capodelegazione dell’Italia. Un giorno mi piacerebbe, dopo aver imparato, fare il presidente di una squadra. Farei un sacco di cavolate, però ho anche tante idee e tante cose che vorrei provare a cambiare, per rendere il calcio uno sport migliore”.

“Vorrei che le società di calcio fossero più sostenibili dal punto di vista economico-finanziario, che non fossero sempre sull’orlo del precipizio, che ci fosse più fair play, che le società facessero più per la comunità, che il tifoso non fosse soltanto un cliente ma anche un partner veramente coinvolto nella vita della società. Vorrei creare un ambiente di lavoro in cui ci siano tanti valori e creare una cultura giusta per crescere come uomini e come giocatori. Sono idee un po’ da sognatore, da idealista. Ma so che nello sport bisogna vincere. Se vinci le partite guadagni più soldi, hai più sponsor e se guadagni più soldi puoi investirli nella tua idea di società. È una sfida che mi interessa”.

A un certo punto ti voleva comprare il Milan e tu dicesti “preferisco vivere”. Perché?

“Ero alla Samp da due anni, ero talmente coinvolto nel progetto per cui non mi sembrava bello lasciare. Poi vivevo bene, ero pieno di amici, appunto i ragazzi della Samp, sole, mare, si mangiava bene. Il Milan era il nuovo Milan di Berlusconi, lo guardavamo con ammirazione. Però se sei innamorato di una ragazza, ne viene un’altra, fai fatica… In effetti non so se sia un paragone calzante, io a volte non ho fatto così fatica… Però ero troppo preso dalla Samp, la ragazza di allora”.

E perché invece alla Juve sì?

“Avevo ventotto anni, avevamo completato la missione Samp, vinto lo scudetto, giocato la finale di Champions e ritenevo che fosse il momento giusto per cambiare. Eravamo d’accordo con il presidente Mantovani, anche lui voleva monetizzare, magari rifare un po’ la squadra e prepararsi ad un nuovo ciclo”.

Perché non abbiamo vinto i Mondiali nel ’90?

“Faccio un ragionamento più da tecnico: non avevamo una struttura di gioco molto solida. Avevamo un gruppo di giocatori che facevano un calcio avventuroso, spettacolare, però quando, dopo cinque partite o sei partite, siamo calati dal punto di vista fisico, abbiamo perso l’intensità che ci aveva permesso di prenderli tutti in velocità, non abbiamo avuto un sistema di gioco forte sul quale appoggiarci. Contro l’Argentina siamo andati in difficoltà anche se poi abbiamo pareggiato in un’atmosfera diversa rispetto a Roma: il pubblico di Napoli aveva Maradona. Certo se avessi fatto quei cinque gol che tutti si aspettavano, forse avremmo anche vinto”.

Nella tua vita hai avuto un periodo pop. Ti eri ossigenato i capelli, giravi con una Cadillac… Perché?

“Perché credo di essere sempre stato un grande professionista, nel senso che credo di aver sempre lavorato tanto. Fuori dal campo cercavo di mettermi in mostra, di sentirmi libero. Volevo comportarmi come un ragazzo della mia età e perciò farmi i capelli biondi se vincevamo lo scudetto, farmi un tatuaggio, portare l’orecchino e comprarmi una Cadillac. Era un modo per uscire dagli schemi e per sentirmi vivo. Era questo, oltre all’immaturità normale di chi, nonostante abbia grandi responsabilità, è sempre un ventenne, non sposato, senza figli…”.

Perché dopo il lockdown le partite finiscono con punteggi tennistici? In Premier si vedono 7-2, 6-2, ma succede anche in Italia.

“In primo luogo ho notato che ci sono molte meno proteste. E la protesta a volte è un modo per mettere pressione all’arbitro attraverso il pubblico. E poi c’è meno condizionamento emotivo del pubblico. Se hai il pubblico, perdi 3-0 e giochi in casa non molli, perché non puoi farlo. Se non c’è pubblico è quasi automatico, non hai quella spinta che la pressione che il pubblico ti dà. E quindi è tutto molto più asettico e in un ambiente più asettico possono accadere punteggi tennistici”.

Nel calcio italiano sta emergendo una nuova generazione?

“Non so se per motivi di bilancio, ma le società si sono finalmente stancate di prendere troppi giocatori all’estero, pagandoli cifre esagerate, talvolta misteriose. Mi sembra che ci sia più volontà di dare opportunità a ragazzi giovani. Investi sui giovani e poi ti ritrovi anche con bilanci migliori. Questi ragazzi sono sicuri, preparati, arrivano a testa alta, hanno fiducia in loro stessi. Poi Roberto ha grande coraggio: se vede un giocatore con un potenziale, lo chiama e lo prova.Una volta dovevi giocare almeno 150 partite in A per vedere una maglia azzurra. Oggi te la guadagni dimostrando un potenziale e poi però devi continuare, faticando e imparando”.

Chi vincerà lo scudetto?

“Credo che quest’anno sia difficile per la Juve. Ma questo al di là del cambiamento di allenatore. È quasi fisiologico, dopo nove anni, che gli altri abbiano trovato le contromisure e che tu possa sentirti un po’ appagato. Anche se il senso di appagamento alla Juve, io ne so qualcosa, non esiste, non è previsto. Alla Juve devi allenarti come se non avessi mai vinto una partita e devi giocare come se non ne avessi mai persa una. Però le altre adesso credo siano pronte a competere. Non so chi lo vincerà, ma credo che quest’anno le altre, oltre ad essersi rafforzate, forse sentiranno meno di prima che il campionato è scontato lo vinca la Juve. Sarà più aperto”.

Quanto ti piace l’Atalanta?

“Da morire, è una squadra nella quale avrei voluto giocare perché il gioco di Gasperini per un attaccante è l’ideale. Ti coinvolge, fai un sacco di gol, fatichi e ti diverti. I bergamaschi giocano con quello spirito che mi piace: avventuroso, coraggioso. C’è altruismo, giocano con continuità e da squadra. Che poi sono i valori che cerchiamo in Nazionale. Non vogliamo teste di cavolo, vogliamo giocatori altruisti, coraggiosi, che abbiano fame e garantiscano continuità. Io queste cose le vedo nell’Atalanta. La società sa di quali giocatori ha bisogno, quando li va a comprare non sbaglia, dal settore giovanile escono dei talenti fantastici che poi magari valorizza, vende, reinveste. È un modello che molte società farebbero bene a seguire”.

Gomez non meriterebbe il Pallone d’oro?

“Il Papu è migliorato con gli anni, è diventato un giocatore totale. Fa qualità e quantità e ti cambia le partite, te le risolve, te le vince. Fantastico. Poi però ci sono Messi, Ronaldo, Neymar, Lewandowski e quindi dici, vabbé, il Pallone d’oro a Gomez lo assegnerei, però non darlo a questi è difficile”.

Quando hai saputo di stare male quale è stato il primo pensiero?

“Ero talmente scioccato che non ho pensato tanto alle possibili conseguenze. Ho voluto che mi dicessero esattamente quello che avrei dovuto fare. Operazione, chemio, radio. È come quando ti rompi un ginocchio, c’è un momento di shock e poi dici ok, va bene: la diagnosi quale è e quale è il periodo no? E cosa dovrò fare in quel periodo? Quindi l’ho vissuta con la testa dell’atleta. Dopo, quando ho cominciato a metabolizzare, l’ho vista più da padre e da figlio e quindi è stata più dura. Molto più dura”.

Di fronte alla malattia si è più egoisti e più altruisti?

“Egoista nel senso buono della parola, altruista perché ti metti anche nei panni di chi ti vuole bene, di chi, nel vederti in difficoltà, soffre. Però in questa fase della mia vita mi sforzo di essere positivo. In verità me la faccio anche addosso tantissimo e ho dei momenti difficili da gestire dal punto di vista emotivo, però vedo questa fase anche come un’opportunità. Se è arrivata è perché avevo bisogno di viverla e di imparare qualcosa e quindi di continuare il mio percorso di crescita umana. È quello che sto facendo. Con fatica e ottimismo”.

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