Vialli, campione a modo suo in campo e fuori

Sempre fedele a se stesso, bravo a trasformarsi e a non vivere mai i sogni degli altri, un fuoriclasse che non ha mai annoiato e non si è mai annoiato

Non c’è modo di accettare una perdita, nemmeno quando è annunciata. Chi non ha fatto il tifo per Gianluca Vialli in questi anni? L’abbiamo abbracciato tutti, la notte di Wembley, un secondo dopo che un gruppo di ragazzi azzurri sfavoriti e fischiati per oltre centoventi minuti aveva incenerito la presunzione inglese. Sembrava fosse venuto a capo della malattia, come era venuto a capo di un Europeo che non dovevamo vincere e invece avevamo vinto. Ma non è stato così, anche se ha combattuto, con quanta forza gli restava, un tumore terribile per strappargli fino all’ultimo minuto possibile.

Vialli non si è mai rassegnato alla vita, almeno non a quello che la vita gli proponeva. Poteva scegliere un’esistenza borghese, tranquilla, nella facilità di una famiglia agiata di provincia. Invece scelse il calcio, la sua passione. Scelse di non vivere i sogni degli altri. Scapigliato di talento a Cremona, genio coccolato alla Samp, campione al servizio della causa comune alla Juve. È stato un attaccante moderno, capace nella carriera di trasformarsi in un giocatore sempre diverso, perché quello che più di tutto aveva in orrore era la convenzione. Intelligente al punto di farsi amare più dai propri presidenti che dagli allenatori: Luzzara a Cremona, poi Mantovani a Genova, infine Boniperti a Torino. Tutti conquistati dal suo piglio, dalla scaltrezza, tutti convinti di non avere di fronte il solito giocatore con in testa soltanto il contratto e la garanzia di un posto da titolare.

Per vent’anni ha attraversato a modo suo il mondo del pallone, senza mai annoiare e senza mai annoiarsi. Un ventennio luccicante, popolato di fenomeni stranieri in cui non era facile farsi strada, tantomeno vincere. Oggi può capitare a un mezzo giocatore di vincere uno scudetto, negli anni 80 e 90 era molto più difficile. Mise il timbro sul primo e unico tricolore della Sampdoria e sull’ultima Champions della Juve. Risultati non trascurabili, a cui ha contribuito in maniera decisiva. Non è mai campato di rendita, ciondolando come fanno molti campioni tra una banalità televisiva, un ballo in discoteca e una comparsata allo stadio. In anticipo sui tempi scelse Londra come terra d’elezione, comprendendo prima di molti che la Premier sarebbe stata la terra promessa. In Inghilterra si è innamorato, lì ha avuto due figlie, lì ha scelto di curarsi, lì ha finito i propri giorni. È rimasto fedele a se stesso e ai suoi principi costitutivi: fregarsene dei luoghi comuni, tenersi stretti gli amici. Mancini prima di tutti.

La storia del nostro calcio l’hanno fatta più i duelli delle amicizie. Un mondo troppo ricco per non essere governato dall’ipocrisia piuttosto che dalla sincerità. Forse anche questa consapevolezza di essere fuori dal comune ha finito per tenerli insieme tutto questo tempo, nonostante i caratteri diversi, le scelte diverse, le vite poco alla volta diventate diverse. Gianluca a Wembley era felice per Roberto e Roberto lo era per Gianluca. Quell’Europeo lo hanno vinto insieme, perché Vialli è stato molto più di un dirigente accompagnatore. Sempre senza prendersi la scena, perché quella spettava a Mancini. Il modo migliore per tenersi un amico è esserlo per lui.

In questi ultimi anni, gli anni della malattia, è stato più amato di quando era in campo. Lo stesso è successo a Mihajlovic. Quando muore un campione con ancora un pezzo importante di vita davanti, c’è sempre un senso collettivo di smarrimento, che fa più male del dolore. Vorremmo restassero per sempre giovani. E noi con loro.

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