Veronica Squinzi e l’eredità Mapei: “Dalla Roubaix ’96 all’Europeo targato Sassuolo”

A due anni dalla scomparsa di Giorgio e Adriana Squinzi la figlia descrive il forte legame tra la multinazionale milanese, il pianeta bici e la maglia arcobaleno

Pier Bergonzi

23 settembre – Milano

Dici Mapei nelle Fiandre e ancora adesso gli occhi di chi ti ascolta si accendono e volano veloci come i ricordi. Negli Anni 90 l’azienda milanese, che Giorgio Squinzi ha fatto diventare una multinazionale (sfiora i tre miliardi di fatturato) dei prodotti per l’edilizia, ha sponsorizzato la squadra numero uno del ciclismo mondiale. Era il team di Museeuw e Ballerini, di Bartoli e Tafi, di Bettini e Freire. Giorgio Squinzi è morto il 2 ottobre 2019, poco prima della moglie Adriana. Ora le redini dell’azienda sono passate ai figli Marco e Veronica, e il brand Mapei rimane molto amato nel mondo del ciclismo. A quasi due anni dalla scomparsa di Giorgio e Adriana, e in occasione dei Mondiali di Lovanio, siamo andati a trovare Veronica Squinzi a.d. del gruppo Mapei e vice presidente del Sassuolo . “Il Mondiale di ciclismo fa riemergere pensieri gioiosi – dice Veronica -. Il ciclismo, lo sapete bene, era la grande passione di mio papà e anche mia mamma si era fatta coinvolgere. Come Mapei siamo sponsor dell’Uci e quindi di tutte le rassegne mondiali dal 2008, dalla gara di Varese vinta da Alessandro Ballan, l’ultimo italiano iridato. Questo è un po’ il nostro mondo”.

In questo fine settimana i titoli iridati verranno assegnati a Lovanio, in Belgio.

“Sì, nelle Fiandre, che mi ricordano le Classiche del Nord, le corse di un giorno più affascinanti per mio papà. Quel periodo tra la Roubaix e la Liegi-Bastogne-Liegi era imperdibile”.

La Mapei divenne la squadra numero uno al mondo. Qual è il suo ricordo più bello?

“Beh, sicuramente la Roubaix del 1996, quella della tripletta di Museeuw, Bortolami e Tafi. E in quello stesso anno, Johan Museeuw vinse anche il Mondiale di Lugano e io ero lì con papà e mamma ad esultare. Ma voglio ancora ricordare il titolo iridato di Evans a Mendrisio del 2009. Cadel era un pupillo di Aldo Sassi, il nostro uomo di fiducia nel ciclismo che si ammalò l’anno dopo, e gli dedicò quel trionfo”.

Erano gli anni della squadra con la maglia a cubetti…

“Fu un’intuizione di mia mamma che aveva idee di marketing geniali ed era sempre un passo avanti. Fecero scalpore i pantaloncini colorati con i cubetti. Fino a quel momento erano sempre neri, solo neri. La Mapei divenne per tutti la squadra dei cubetti e grazie ai successi del ciclismo siamo diventati popolari in tutto il mondo”.

E particolarmente in Belgio.

“Lì la bici è religione e per noi di Mapei è una seconda patria. Mio papà veniva fermato per un autografo o per una foto perché presidente della squadra di ciclismo”.

A quali corridori siete legati?

“Tantissimi sono rimasti nel nostro cuore, sicuramente Ballerini, e Tafi, Nardello, Zanini e Bettini con i quali abbiamo un rapporto di amicizia. Loro stessi si considerano ancora campioni della famiglia Mapei”.

Che cosa rimane di quell’esperienza?

“Rimane un’eredità di valori che sono gli stessi della nostra azienda. La dedizione al lavoro e quindi alla fatica, la perseveranza nella ricerca di un obiettivo, la valorizzazione dei talenti e il senso del gruppo. Lo slogan della squadra era “Per vincere insieme”, e vale ancora adesso per l’azienda. E siamo sempre orgogliosi del Centro Ricerche Mapei. Nacque dall’incontro illuminante con Aldo Sassi, che voleva mettere ordine e etica nella preparazione dei nostri atleti. Tagliammo i ponti con tutti i vari preparatori e ci affidammo al centro di Castellanza (ora è ad Olgiate Olona) che era davvero all’avanguardia. E lo è rimasto”.

A proposito di Sassuolo, quanto conta per Mapei?

“Io mi sono innamorata del progetto Sassuolo, è una squadra che crede nei giovani talenti e li fa crescere con gradualità. E siamo così bravi che abbiamo dato alla Nazionale di Mancini tre campioni d’Europa come Berardi, Locatelli e Raspadori. Sono diventata vicepresidente della squadra e seguo tutto, anche se Giovanni Carnevali ha la nostra fiducia totale. Con lui sappiamo di essere in buone mani. Potremmo essere il Leicester d’Italia? I sogni sono uno stimolo, ma noi dobbiamo fare bene quello che sappiamo fare, senza voli pindarici. Abbiamo ad esempio un progetto meraviglioso come “Generazione S” con un testimonial che adoro: Raspadori! Noi continuiamo a credere e investire nel futuro”.

Potreste tornare nel ciclismo con una vostra squadra?

“Mai dire mai, ma non credo. Quello che ha fatto Mapei negli anni d’oro era legato a doppio filo alla passione, contagiosa, di mio papà. Il coinvolgimento familiare e aziendale resta per me un momento esaltante e irripetibile. Intanto ci godiamo, ancora per qualche anno, i campionati del mondo. Tifando per un italiano, naturalmente”.

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