Vengo da un calcio antico, spiegatemi questo Napoli

Scusate se mi intrometto. Ho la sindrome di Capello. Se il campionato è poco allenante, come è possibile che ci sia una squadra poco battente? Vengo da un calcio antico, lo so, quando le cose erano più chiare e semplici. Mettevi un centrocampista all’ala destra, diciamo Vincenzino Montefusco, e fermavi Facchetti che aveva il vizio di venire avanti. Si facevano cose così perchè non c’erano i droni, i metal-coach, i personal-trainer e le statistiche dell’Opta. Si andava avanti con furbate innocenti. Il mio maestro è stato Bruno Pesaola. E io non sono stato l’allievo migliore. Nelle notti di luna alla “Sacrestia” di Arnaldo Ponsiglione, sospesa tra i pini di Posillipo e il golfo scintillante, ostriche e champagne, il petisso dopo avermi raccontato il calcio come una favola, lui che aveva giocato con Alfredo Di Stefano nelle giovanili del River Plate, mi guardava e concludeva: « Mimmo, non hai capito un cazzo » . Figuriamoci oggi, ci capisco ancora meno. C’è questo Napoli che fa spettacolo in Italia (qualcuno dice ancora che preferisce andare al circo, per lo spettacolo) e che meraviglia in Europa. Una squadra così, a Napoli poi, periferia di tutto, dove, diceva Brera, non si vincerà mai niente a causa dello scirocco, poi arrivò il “divino sgorbio”, come lui lo chiamava, e fu un’altra storia, a Napoli, dico, che sta succedendo?

Il Napoli di De Laurentiis è un’eccellenza

C’è da dire una cosa. In questa città, famosa per Gomorra, e, prima, per fortuna, per Pino Daniele e Massimo Troisi, esistono delle eccellenze in molti campi di cui nessuno parla e scrive. Ma nel calcio costruire una “eccellenza” è molto complicato e aleatorio. Il Napoli di De Laurentiis è diventato una “eccellenza”. Nessuno ancora me l’ha spiegato. Certo, è un progetto portato avanti nel tempo, fra colpi fortunati ed errori, però con grande tenacia e convinzione, virtù che ci appartengono poco e che Aurelio ha imposto isolandosi in una genuina maschera di antipatia e distacco, ma questa è una spiegazione ovvia, banale. Allora mi dicono che a Castelvolturno s’è realizzata un’alchimia chimica e che Luciano Spalletti è il piccolo chimico di questo fenomeno. Poichè vengo da un calcio antico, dove non c’erano allenatori premi Nobel per la chimica, ma tutto era acqua e sapone, e qualche pasticca di simpamina, questa alchimia di Castelvolturno mi affascina, ma non mi spiega niente. Com’è possibile che sia venuto fuori questo Napoli che attacca e vince, che vince e domina, che domina e travolge, addirittura uno scandalo per il vecchio calcio italiano prudente e speculativo, difesa e contropiede, come è possibile una squadra così marziana che ti schianta gli occhi e ti fa cantare oje vita da vita mia come ai tempi romantici senza alchimie? Guardo Spalletti nelle conferenze-stampa che sembrano sedute spiritiche, guardo come rotea la testa, come sospira e parla, parla e sospira, e gioca prudentemente con la biro, e sfiora il microfono, e ci stiamo addormentando tutti, ammaliati e ipnotizzati da questo guru toscano, e qualcosa capisco. Spalletti ha ipnotizzato l’intera “rosa” del Napoli e le sta facendo vivere un sogno. Se si svegliano, tutto finisce. Intanto, vanno in campo ipnotizzati e vincenti. Che meraviglia!

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