Un fallimento annunciato: niente sarà più come prima

La sconfitta delle 12 società guidate da Perez e Agnelli è destinata a cambiare il calcio in profondità

Hanno perso la faccia e anche la partita. La fragorosa sconfitta dei 12 capitanati da Perez e Agnelli è destinata a cambiare il calcio più in profondità di quanto non avrebbe fatto la Superlega.

I top club per ricchezza e indebitamento sono stati sconfitti per due motivi fondamentali: l’azione decisa dei governi, soprattutto di Boris Johnson, e la reazione dei tifosi. Due errori di valutazione madornali, grossolani, per un gruppo di presidenti che si considera l’élite del pallone, ma il cui grado di dilettantismo si è rivelato pari solo alla loro presunzione.

Dicevamo la politica: gran parte delle proprietà delle sei società inglesi sono straniere, il premier Johnson ha spiegato i doveri a cui sono chiamate, mettendole di fronte ai rischi che la loro scelta avrebbe comportato. Hanno subito capito. I costosi studi legali cosa potevano contro il premier e il parlamento? Ceferin e Boban hanno fatto il resto. Ma se la reazione dell’Unione europea, di Boris Johnson e Macron poteva non essere messa nel conto, appare sorprendente, e anche emblematico, che non sia stato minimamente valutato dai 12 club l’impatto della loro scelta sui tifosi. Trattati come customers (clienti) hanno dato una lezione a manager e finanzieri su cosa sia ancora oggi il calcio. Questo gioco bellissimo è diventato un gigantesco affare perché ha mantenuto inalterato nel tempo l’ingrediente di base: la semplicità. I tifosi usano parole che i loro dirigenti hanno dimenticato e tradito, ma che rappresentano ancora la spina dorsale del loro business. Il calcio non è solo un grande spettacolo, ce ne sono di altrettanto belli, forse perfino più divertenti. Il calcio è diverso. Il calcio è molto altro. In nessuno sport di squadra il più debole può avere fino all’ultimo la possibilità di battere il più forte. In nessun altro sport il radicamento popolare è così profondo. Sotto a ciascuna bandiera c’è una comunità appassionata. C’è una storia, di cui ogni tifoso è orgoglioso. In Nba le squadre cambiano città ed è normale. In Spagna il popolo del Barcellona ha rifiutato la Superlega perché gli era incomprensibile e intollerabile vedere il mito blaugrana ridotto a fare il supporto a una battaglia del Real.

I 12 hanno pensato di poter trasformare la Champions in un torneo finto, di comodo, redditizio. Ma nel calcio i bitcoin (una moneta virtuale) non valgono niente. Il problema della redistribuzione dei ricavi andava affrontato in altra maniera. Trasparente, non complottarda. Magari perdevano lo stesso, ma senza essere umiliati. Questa non è una Waterloo, perché non ha nulla della grandiosità napoleonica. È una ritirata scomposta che con il passare delle ore ha assunto toni grotteschi, perfino farseschi, che non fanno onore alla storia di questi club. I loro dirigenti hanno dimenticato la regola aurea che dovrebbe tenere a mente ogni presidente e ogni manager che col pallone ha a che fare.

Agnelli ha la responsabilità maggiore perché il progetto l’ha messo in piedi mentre in Lega sabotava i fondi togliendo risorse agli altri club. Un ripensamento -vedrete – arriverà su questo tema. Marotta farà bene a dimettersi da consigliere federale. E cosa dire di Gazidis che celebrava la Superlega come nuovo Eldorado mentre nella sua Inghilterra tutto franava? Juve, Inter e Milan sono state e sono ancora una parte preziosa del calcio italiano. Hanno vinto moltissimo, ci hanno regalato Coppe europee e successi mondiali. Hanno conquistato qualcosa che è rimasto scolpito nella memoria dei loro tifosi, ma possiamo dire di ciascun italiano, perché quel giorno ognuno si è sentito un gigante. Quando non si è più in sintonia con tutto questo, quando si taglia il filo magico che tiene insieme la propria comunità, è meglio farsi da parte.

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