Tutte le verità di Borriello “Dal Cagliari alla Spal, ora…”

31 luglio 2018 – Milano

Marco Borriello GETTY IMAGES

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Di Marco Borriello si erano perse le tracce. Ultima presenza il 23 dicembre 2017, ultimo gol il 27 agosto, qualche post su Instagram, una vacanza a New York in compagnia di una ragazza non bruttissima. Per fortuna ci sono cose che non si possono approfondire sui social. Serve di più, anche perché ci sono tanti tifosi, a Ferrara e a Cagliari, che aspettano di sapere. Meglio allora una cena in un elegante ristorante milanese e un’intervista in cui raccontare tutto. «È la verità e sono disponibile a un confronto con chiunque. Non voglio alimentare polemiche, ma fare chiarezza per rispetto dei tifosi delle ultime due squadre nelle quali ho giocato».

Marco, partiamo dalla Spal. Dal 23 dicembre 2017, nulla. Che cosa è successo? «La stagione era iniziata bene, Ferrara è una grande piazza, c’è entusiasmo. Purtroppo ho avuto difficoltà tecniche, la Spal giocava troppo lontano dalla porta. Però con me la squadra ha disputato le migliori partite e spesso ha fatto punti».
Perché il pubblico si arrabbiò con lei? «Il 10 dicembre in casa contro il Verona fui sostituito sullo 02, lo stadio mi fischiò, io ci restai male e replicai con un applauso sarcastico. Lì ci furono i primi screzi. Mi sarei aspettato conforto e fiducia da allenatore e dirigenti e invece Semplici mi mise da parte. E poi, prima di Natale, mi infortunai al polpaccio ».


Qualcuno parlava di infortunio immaginario. La sua versione? «Dopo la sosta iniziai la preparazione, ma sentii subito una fitta nello stesso punto. Così cominciò il calvario. Era uno stiramento di pochi millimetri, eppure non si sanava mai e i medici della Spal non riuscivano a risolvere il problema. Io rientravo in campo e mi rifacevo male immediatamente. Si era formato un grumo di sangue, come una piccola cisti. La società fece passare un messaggio negativo, come se io non volessi allenarmi e fossi un lavativo, forse perché ero costato molto. Io sono sempre stato un grande professionista, non permetto a nessuno di infangare la mia carriera. E ho fatto a spese mie nove risonanze magnetiche in giro per l’Italia e mi sono curato a Milano da Melegati, il medico del Milan. Iniziammo perfino a parlare di rescissione con la Spal. E per risolvere il problema, sempre a spese mie e tramite un amico che gioca nel Fulham, facevo venire da Londra un medico musulmano, che con la cup therapy cura parecchi giocatori della Premier».
Perché nel frattempo non è mai andato allo stadio? «Sarei stato un ipocrita a fare finti sorrisi a un allenatore che mi aveva messo da parte e a quei tifosi che mi insultavano. Pensi che un giorno mi hanno anche aggredito per strada. E, comunque, dal lunedì al sabato mattina ero sempre a Ferrara e facevo due sedute al giorno cambiandomi in uno spogliatoio diverso rispetto ai miei compagni per volere della società: accettai l’umiliazione nell’interesse della Spal, mettendomi l’orgoglio in tasca».
Era necessaria quella foto su Instagram in cui lei beveva un caffè a Forte dei Marmi? «Magari avrei potuto evitarlo. Ma avevo avuto tre giorni di permesso dopo la quarta ricaduta al polpaccio. Era un problema dove fossi? Non ho mai sgarrato una volta, infatti non ho avuto nessuna contestazione formale dal club».
È vero che prima della fine della stagione era guarito? «Sì. Nella settimana che portava all’ultima partita ero pronto. Ma il martedì il magazziniere mi disse che non avevo il permesso di rientrare nel gruppo e dovevo restare nell’altro spogliatoio. Non mi hanno più fatto allenare con la prima squadra. E poi mi hanno negato il permesso di giocare la partita d’addio di Pirlo».
Lei quale errore si riconosce? «Forse solo l’uso dei social, ma che male c’è a bere un caffè in un giorno libero…? Magari diedi la sensazione di strafottenza, ma non è così. Io vivo per la squadra in cui gioco, vado a letto alle 22.30, mangio con attenzione, porto sempre con me il fisioterapista di fiducia. Con maggiore esperienza da parte di tutti la mia situazione a Ferrara poteva essere gestita in maniera diversa sia a livello tecnico sia mediatico». Passiamo a Cagliari. Perché andò via dopo un’ottima stagione? «A Cagliari sono stato benissimo, ho grande rispetto per il popolo sardo. Arrivai con Capozucca, che con Braida è il mio padre calcistico. Il contratto prevedeva un fisso più 50.000 euro netti a ogni gol. Pensai: “Il presidente è un folle oppure non crede in me”. Segnai tantissimo, ad aprile ero a quota 16. Mancavano 5 giornate e la gente sperava che battessi il mio record personale di 19 gol. Il turno seguente giochiamo contro il Pescara e c’è un rigore per noi. I tifosi invocano il mio nome, ma Rastelli a sorpresa indica Joao Pedro: quanti fischi dagli spalti».
Lei ci rimase male? «Sì, per me fu come una coltellata: Rastelli quell’anno veniva beccato dai tifosi e anche alcuni giocatori si erano comportati male con lui. Io invece lo abbracciai dopo un gol e cercai di trasmettergli fiducia e affetto perché capivo le sue difficoltà. Ma pochi giorni dopo compresi tutto. Arrivò da me Capozucca in lacrime, Giulini gli aveva detto che non l’avrebbe confermato e poi il d.s. mi fece vedere un messaggio del presidente: “Borriello deve uscire alla fine del primo tempo”. E lì capii la scelta del rigore: Giulini non voleva più che io segnassi. La situazione si complicò. A Sassuolo Joao Pedro si permise di dirmi “stai zitto e corri” durante la partita: lui a me, pazzesco… E nello spogliatoio ci fu una rissa tra noi due. Io ero svuotato. All’inizio della stagione seguente il presidente voleva cambiare il mio contratto alzando la parte fissa e togliendomi il premio legato ai gol. Io non accettai e lui se la prese. Il clima non era bello, non parlavo con i brasiliani e dieci giorni prima dell’inizio del campionato chiesi la cessione. Arrivarono le offerte di Bologna, Genoa, Brescia, Spal, Benevento e Olympiacos. Stavo chiudendo col Bologna, poi la trattativa saltò e alla fine scelsi la Spal».
E adesso? Quanto è forte la voglia di segnare il 100° gol in A (ne mancano 4)? «Mi sto tenendo in forma in attesa della chiamata giusta. Sono un leone ferito, non voglio smettere in questo modo. Ma sono in cerca di emozioni e di una bella avventura, magari anche in una squadra che gioca le coppe e fa turnover: a 36 anni non posso disputare tutte le partite, ma non sono vecchio e ho la forte motivazione di chiudere a testa alta per rispetto della mia carriera».

Una squadra che gioca le coppe come il Milan? «Non sarei mai andato via dal Milan. Sono innamorato del Milan: gli anni più belli, lo stadio più bello. Non sarebbe una brutta idea…».

 G.B. Olivero 

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