Trent’anni senza Gianni Brera: troppo tutto

Riassumere Gianni Brera, a trent’anni dalla morte avvenuta il 19 dicembre 1992, sarebbe come prosciugare il mare con un secchiello. Troppo grande, troppo vasto, troppo «tutto». Preferisco, allora, rammentare l’emergenza che me lo fece conoscere «fisicamente», visto che di lettura lo frequentavo da una vita. Accadde al Palasport di Montreal, il 22 luglio 1976, durante Italia-Jugoslavia, partita valida per il torneo olimpico di basket. L’approccio fu un trionfo, azzurri sempre padroni e la bellezza di sedici punti di margine già a metà gara: 57-41. Intervallo. Mi scappò, mi precipitai. E chi trovai? Gioanbrerafucarlo in persona, inviato della «Gazzetta». Era scappata anche a lui. Un onore: per me e per la mia vescica. Mi presentai. Sfumazzava un toscano (si poteva, all’epoca). Ci scambiammo stupore e opinioni. Una superiorità talmente aliena che puzzava di fregatura. Un dominio così totale e imbarazzante che lo spinse a invocare la benevolenza di eupalla: così bravi, i nostri, da rasentare la perfezione, confine insidiosissimo. Mi trasmise, Brera, un sentimento quasi leopardiano. No, non fu una gufata, fu uno slalom fra antropologia e agonismo, qualcosa di squisitamente tecnico, etnico e, dunque, pericoloso. In parole povere: che tipo di reazione avremmo dovuto aspettarci dopo un eretismo cestistico del genere, la quiete subdola che anticipa la tempesta delle restaurazioni o la calma robusta che accompagna le rivoluzioni bisognose di normalità? Andò, più o meno, come al generale George Armstrong Custer al Little Bighorn: con i nostri circondati e crivellati sino alla freccia fatale e letale di Zoran Slavnic (87-88). Agli sgoccioli degli sgoccioli degli sgoccioli: quando puoi solo raccomandare l’anima al Dio delle traiettorie. Cercai il maestro in tribuna stampa, ripensando al «vertice della pipì». Dall’epinicio all’epicedio. Un altro frammento. La Juventus si accingeva a contendere la Coppa Intercontinentale all’Argentinos Juniors di Claudio Borghi, il cocco di Silvio Berlusconi ripudiato da Arrigo Sacchi a furor di «intensità». Non lo voleva. Voleva Frank Rijkaard. Lo ebbe. La storia gradì. L’ordalia era in programma, a Tokyo, l’8 dicembre 1985. Finale secca. Era, quella, la Juventus di Giovanni Trapattoni e Michel Platini. E di un imberbe Stefano Pioli che, a gioco in corso, avrebbe sostituito Gaetano Scirea, il capitano infortunato. Ai primi del mese squillò il telefono di casa. Era Brera. Gli risposi sorpreso, quasi spiazzato. Lavoravo per la «rosea», sapeva che mi stavo occupando proprio degli avversari. Gli premeva approfondire alcuni concetti di natura tattica. Mi sforzai di essere all’altezza. Prese nota. Mi ringraziò. Stop. La sfida, romanzesca, si risolse ai rigori sulle ceneri di uno scoppiettante 2-2. Decise Michel. Ma non è questo il punto. Sotto Natale mi arrivò una cassa di vini dell’Oltrepò pavese. Nessun biglietto. Boh. Passarono un paio di settimane e, d’improvviso, mi si accese una lampadina. Oltrepò. Vini. Chi se non lui? Brera. Dal cesso canadese alla strenna lombarda. La classe non è acqua. 

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