Thiago Alcantara dice tutto: “Odio il calcio moderno. L’Italia? Fa paura come la Francia”

Il centrocampista della Spagna e del Liverpool tra Lewandowski, Luis Enrique, Eriksen e uno sport che cambia. E sull’Europeo: “La squadra di Mancini ha sviluppato e impone una dinamica vincente, mi piace guardarla e pensare a come batterla”

Dal nostro inviato Filippo Maria Ricci @filippomricci

19 giugno – SIVIGLIA (SPAGNA)

Questa sera a Siviglia la Spagna aspetta la Polonia senza margine d’errore. Lo 0-0 all’esordio con la Svezia e i risultati del girone obbligano la nazionale di Luis Enrique alla vittoria per evitare uno spareggio con la Slovacchia mercoledì prossimo. Di fronte tra gli altri avrà Robert Lewandowski, grande amico di Thiago Alcantara. Uno che parla come gioca: all’attacco e con proprietà di linguaggio.

Partiamo da Lewandowski.

“Giusto, perché è un grande amico. Siamo stati insieme al Bayern per 6 anni e anche le nostre compagne hanno legato tanto. Con Robert ci sentiamo spesso per videochiamata. Io gli chiedo del Bayern, lui di Klopp che l’ha allenato al Dortmund, e poi parliamo della paternità, visto che siamo entrambi padri”.

Avete un problema simile: lui ha fatto 2 gol in 12 partite tra Mondiali ed Europei e gli chiedono di più, voi tenete palla come se fosse vostra ma venite da due 0-0 consecutivi.

“Parto da noi. È giusto chiedere agli attaccanti di segnare, ma la stessa richiesta va fatta anche a noi centrocampisti. Noi che stiamo in mezzo dobbiamo pretendere da noi stessi di far gol così come Alvaro Morata si danna per tutta la partita per aiutarci a difendere. E lo stesso vale per la Polonia: hanno un grande attaccante, ma non tutto può o deve dipendere da lui”.

Lei lavora con Klopp al Liverpool e con Luis Enrique in nazionale.

“È bello poter giocare in una stessa stagione in due modi differenti. Ed è facile adattarsi al gioco di Luis perché ha il posizionamento analitico di Pep, l’aggressività di Klopp e cose di altri allenatori che ho avuto in passato. Ha le idee chiare, le spiega e le passa bene”.

Luis Enrique come una specie di ibrido? Il suo gioco è un’evoluzione più fisica del tiqui-taka?

“Luis è un’evoluzione di sé stesso, e so cosa dico perché l’ho avuto al Barça B, quando entrambi eravamo all’inizio, io come giocatore e lui come tecnico. Evolve con l’esperienza, con ciò che vede in giro e con i giocatori che ha, adattandosi a un calcio che ha preso tutto un altro ritmo. L’attuale è un calcio molto più accelerato, più fisico, la figura del 10 che avevamo prima è praticamente sparita perché abbiamo centrali che non temono la tecnica del 10 e vanno a pressarlo togliendogli il tempo necessario per imporre la sua qualità sublime caratterizzata da una lentezza implicita che oggi non è più tollerata. Noi che non siamo così rapidi di gambe dobbiamo adattarci ad essere più rapidi di testa”.

Sparito il 10, anche il 9 è a rischio di estinzione.

“Più che spariti il 10 e il 9 si sono adattati in campo a ciò che succede, come nella vita, una specie di evoluzione della specie. Il calcio cambia, ma per quanto mi riguarda restano ben salde due premesse di base: competere al massimo per vincere e dominare il gioco”.

Chi ha cambiato il calcio? Gli allenatori? La preparazione fisica?

“I giovani oggi si preparano di più. Io ricordo che a 18 anni mi alzavo, prendevo un caffè, mi mettevo a chiacchierare e 5 minuti prima dell’allenamento m’infilavo gli scarpini e entravo in campo. Oggi 30-40 minuti prima dell’allenamento vedi questi ragazzi già lì in palestra a fare esercizi di preparazione per migliorare mobilità e forza. I giocatori oggi già da giovani entrano nella professione con una mentalità precisa, con la voglia di migliorarsi che noi non ritenevamo necessaria perché nessuno ce l’aveva spiegato. Tutto questo fa evolvere il calcio, i giocatori hanno una maggior coscienza del fatto che così facendo possono migliorare, e sicuramente in poco tempo il processo avanzerà ancora. In tutto questo però bisogna mantenere e difendere la bellezza e la tecnica di questo sport, che per me restano valori fondamentali”.

Lei ha giocato in Spagna, in Germania e ora è in Inghilterra.

“Il cambio più grande io non l’ho visto o vissuto nei Paesi ma a livello generazionale, dai tempi di mio padre ai miei. A me da piccolo piaceva un sacco andare agli allenamenti di papà e vedere cosa facevano i giocatori prima o durante un allenamento. Gli chiedevo cosa prendeva prima delle partite, ricordo come un mito i suoi frullati di frutta. E poi quando ho iniziato avevo come punti di riferimento Xavi, Iniesta, Puyol. Ora ho i compagni giovani. Vedo un percorso generazionale, non geografico”.

Che nazionali le sono piaciute sin qui in questo Europeo?

“L’Italia ha iniziato in maniera formidabile ma per me non è una sorpresa. Puoi sorprenderti forse, e solo in parte, per i due grandi risultati che ha ottenuto però la squadra di Mancini viene da una dinamica incredibile, 29 partite senza perdere, 10 senza incassare ed è bello vedere come ha sviluppato e come impone questa dinamica vincente. Come cerca la sua essenza. Poi c’è la Francia, una nazionale molto consolidata. Mi piace guardare gli altri e pensare a come posso batterli. Guardo le partite più in forma analitica che passionale e per questo ho citato Italia e Francia: sono le due nazionali che meglio di tutti stanno sviluppando l’idea del gioco che vogliono fare. Altre squadre non hanno ottenuto i risultati che si auspicavano ma riescono comunque ad essere dominanti, come il Portogallo o la Germania che affrontando una squadra super solida come la Francia ha mostrato un gioco preciso. E l’Inghilterra, che ha un grandissimo potenziale con giocatori che stanno crescendo all’interno di questo progetto. E poi naturalmente ci siamo noi, che abbiamo un’idea di gioco molto precisa che sviluppiamo da tempo: ci manca solo che la palletta entri”.

Lei è nato in Italia, gioca con la Spagna, suo padre ha vinto il Mondiale col Brasile, la nazionale di suo fratello. In questo Europeo siete in 65 giocatori nati in un Paese diverso da quello che rappresentate.

“Il mondo si è sempre sviluppato così. Le culture sono figlie della commistione, dell’emigrazione. Noi siamo il luogo dove ci formiamo, siamo ciò che sentiamo. Io non ho limiti in ambito culturale, sono aperto alla possibilità di apprendere da ogni tipo di influenza. Sono cresciuto in Spagna, ho amato la Germania e mi sto appassionando all’Inghilterra. E il calcio attuale come il mondo si apre a questa possibilità di comunicazione e commistione”.

Le nazionali rischiano di ‘acquistare’ giocatori come i club?

“Non credo che si vada in quella direzione. Mi sembra giusto avere la possibilità di convocare quei giocatori che possono e che vogliono venire. Il Brasile ha un’influenza africana tremenda, e il suo calcio, il più sviluppato del mondo, è figlio di questa ‘mezcla’. La Francia lo stesso, ha creato un mix spettacolare che si riflette in maniera meravigliosa sul campo. Tutti i Paesi seguono la stessa linea, non è una questione di maglia o di bandiera, ma di cultura”.

Cos’ha pensato quando ha visto Eriksen accasciarsi?

“Il calcio passa in ultimo piano. Pensi: ‘Che stiamo facendo qui ad allenarci, a giocare al calcio?’. Ma allo stesso tempo sei lì a sperare e a pregare con tutte le tue forze che recuperi perché sai che vuole vivere, ovviamente, ma anche che vuole tornare a giocare a calcio. Un incrocio di emozioni tra la voglia di lasciare tutto e una riflessione sulla bellezza e la fortuna di ciò che facciamo”.

Ha avuto paura?

“No, perché questi episodi succedono col contagocce. È come quando leggi di un incidente aereo: quanti aerei hai preso e quanti ne sono caduti?”.

I 5 cambi hanno cambiato l’intensità del gioco?

“Chiaro. Io odio il calcio moderno, sono un tipo classico, i 5 cambi sono importanti visto il Covid ma mi piaceva più con 3 perché si cambia l’essenza del gioco: le squadre stanche non lo sono più, chi difende lo fa fino al novantesimo con le stesse energie, chi fa pressing lo stesso. E poi c’è dell’altro. Il calcio oggi è più fisico, si sente la mancanza di quel giocatore differente che può spostare la dinamica di una partita, è sparita la figura del 10. E il Var ha peggiorato ulteriormente le cose. Sono sempre stato contro, l’ho sempre detto e non ho cambiato idea. Magari non ci fosse, spezza l’essenza del gioco, ha fatto sparire la malizia insita nel gioco, e poi tante volte segni, e anche se è un golazo sei lì ad aspettare che controllino se non c’è qualche irregolarità, se lo danno o no”.

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