Spalletti, così ha fatto innamorare il mondo, tutti i retroscena

NAPOLI – In fin dei conti, gli è bastato seguire la luce e lasciarsi andare: l’emanava proprio lui, con quegli occhi proiettati oltre, un visionario ecco cos’era, e quando ha intuito d’essersi incamminato sul sentiero ideale, Luciano Spalletti ha preso il proprio talento e l’ha lanciato a mezz’aria. Destinazione paradiso. E’ stato un viaggio lungo e pure complicato iniziato un bel po’ di anni fa, vissuto attraversando le colonne di granito della diffidenza e del pregiudizio, però marciando a modo suo: testa alta, petto in fuori e mai un passettino laterale, non si fa, semmai l’esatto contrario, perché è nella tormenta ch’è necessario aver coraggio. «Io non sono mai stato in prima classe, andavo con l’autostop. Ora c’è chi mi prende per culo perché metto le scarpe di calcio, a bordo campo: ma io so quello che ho sofferto per avere quelle scarpe, lo so perché da piccolo non avevo i soldi per comprarle…». E’ stato bello, persino bellissimo, quel tour dell’anima che l’ha portato in giro per il Mondo, capitali politiche ed economiche, luoghi sacri, sublimi come quel calcio che ora abbaglia e che è il poster della vita di Luciano Spalletti, che nella galleria del proprio vissuto può sistemarci tutto, niente escluso, tra cui uno scudetto italiano. «Mi sento ripagato dei sacrifici fatti». Da Empoli alla Samp, dal Venezia all’Udinese, dall’Ancona, alla Roma a San Pietroburgo e ancora a Roma, alla Milano interista: una trentina d’anni con quella valigia piena di idee, la difesa a tre mezzo, il centravanti ch’è lo spazio, la verticalità, le linee da occupare e quelle da creare e poi, zac, sempre, ossessivamente Totti e Icardi e Icardi e Totti e nessuno che per ricredersi abbia pensato anche un po’ a Insigne e Mertens o a Mertens e Insigne, in fin dei conti storie analoghe ed epiloghi opposti. E invece Spalletti è stato altro, un innovatore a spasso tra i tempi, pardon in anticipo, con quelle rivoluzioni a tracciare il mutamento, la sua stessa evoluzione, le radici di una cultura calcistica ampia, ricca, addobbata di iniziative che tracciassero altre rotte.

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L’esteta

Il suo calcio chic o anche osè, il suo calcio rock e pure pop, il suo calcio hard e mai soft è dentro il palleggio mai banale, nel movimento degli esterni che riempiono il campo o creano le profondità, nella capacità d’interpretare gioiosamente quel copione da mandare a memoria, certo, però pure da infiocchettare di suo evitando di ingabbiare il talento o la spudoratezza. Napoli è un puzzle del suo trentennio o anche il contenitore di tanti Luciano Spalletti più uno, quello nuovo (magari vecchio e nessuno se n’era accorto), gestore di situazioni scabrose – Insigne e Mertens, appunto; Koulibaly e poi Ospina, eh sì – divenute normali, mattoncini di una rivoluzione sostenuta con la forza enciclopedica di quel football che s’è impadronito del tridente ed ha fatto germogliare un’epoca travolgente. Il Napoli alla Luciano, come un polipo che afferra ogni frammento, è (quasi) campione d’Italia, ha il capocannoniere della serie A, ha il miglior attacco, condivide con la Lazio di Sarri la miglior difesa, ha fatto innamorare Guardiola e Klopp, ha esportato la sua natura seducente in giro per l’Europa, ha finito per sentirsi dire che aveva qualcosa dei marziani, ha stordito, appassionato, elettrizzato, scioccato, esaltato, mai deluso nessuno, men che meno se stesso. Dentro lo scrigno dev’esserci ancora altro, non si sa bene cosa, ma conviene stare a guardare: Spalletti ama stupire con gli effetti speciali.


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