Serie A senza soldi, pericolo Goldown

Serviva una pandemia per farci aprire totalmente gli occhi, e non la Faz, acronimo del Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ieri il quotidiano tedesco ha fatto sapere al mondo che la Serie A ha le pezze al culo, semplicemente riprendendo i concetti espressi, anche durante il nostro SportLab, da Gabriele Gravina e Paolo Dal Pino. I due presidenti avevano infatti segnalato «un buco di 600 milioni entro la fine della stagione 20-21, 400 dei quali solo a dicembre»: due terzi delle perdite derivano dalla mancanza di entrate derivanti dalla vendita dei biglietti, il resto dalle sponsorizzazioni perdute. «Entro il 16 novembre i club devono pagare gli stipendi di settembre» questa la madre di tutte le scadenze «e 15 su 20 non sono in grado di farlo».

Come ho scritto più e più volte, i conti del calcio italiano erano già indecenti prima di marzo, alcune società risultavano tecnicamente fallite ma tenute in piedi con le mollette federali: il virus ha dato il durissimo colpo finale. Nella stessa condizione, se non peggio, si trovavano – e trovano, naturalmente – gli altri sport professionistici, i quali non possono fare affidamento sulle televisioni: cambiano le dimensioni, i numeri della crisi, non gli effetti.

SportLab, la Finanza creativa del calcio

È innegabile che i principali responsabili dello sfascio siano i presidenti, ovvero chi i denari li mette, e non sono esenti da colpe i “richiedenti” – calciatori, allenatori, agenti – e anche la stampa che per anni ha invocato grandi acquisti, spese monstre e fuori controllo, pensando all’immediato, alimentando sogni elementari e eleggendo a fenomeni ragazzi al primo acuto.

Ma è passato il momento della distribuzione delle bocciature facili: adesso bisogna provare a guardare al dopo. Per questo è necessario definire oggi i confini del praticabile, individuare il percorso più rapido ed efficace per sopravvivere e ripartire con accenti nuovi. «Desideriamo che allo sport venga riconosciuta un’importanza strategica ed essenziale, senza nessuna retorica, per il futuro del Paese» è spiegato nel manifesto dello sport diffuso in queste ore – e firmato da centinaia di atleti e appassionati – il cui frontman è Mauro Berruto; un documento pensato per la base ma che si occupa anche dell’altezza, dei pro: «Gli sportivi che rappresentiamo sono consapevoli di ciò che si può o non si può fare, soprattutto sono pronti non a indicare il problema, ma a offrire soluzioni. Occorre tenere in vita questo motore virtuoso del Paese. Il nostro desiderio è quello di non vedere mai più il mondo dello sport contrapposto a quello della scuola, alla sanità o alla cultura come successo in passato. Ancor prima che di destinare risorse economiche, si tratta di riconoscere un valore, che è pronto a mettersi a disposizione del Paese. Si tratta di riconoscere identità e dignità».

Il messaggio è importante. E intelligente. Ma rischioso. Per competere con le forze che gestiscono il Paese occorre esibire un basso profilo, salvo subirne le vendette. Oggi chi si rivolge allo sport resuscita il siparietto meschino di quelli che «lei non sa chi sono io», diventando macchietta, tradendo incompetenza e triviale arroganza. Forse i peggiori nemici sono ispirati dal fatto che la Costituzione non conosce lo Sport; temo, invece, che questi nemici non conoscano la Costituzione. Dio ce ne scampi.

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