Sandro Mazzola, 80 anni nella storia

Gli 80 anni di Sandro Mazzola, figlio dell’immenso Valentino e fratello di Ferruccio, sono un brivido dei tempi e una pacca sulla spalla della memoria. All’epoca della Grande Inter, l’Inter di Helenio Herrera, il mago del taca la bala e degli slogan al caffè, indossava il numero otto con la stessa disinvoltura con cui Enzo Jannacci, incallito milanista, faceva calzare le scarpe da tennis alla sua musica, alle sue canzoni.

Scatto razzente, dribbling secco e stretto, un rombo di tiro. La carriera di «Mazzolino» ha raccontato l’anima del Paese: dalla sciagura di Superga del 4 maggio 1949 al compromesso storico (la staffetta con Gianni Rivera), alla frenesia di quei madornali Sessanta che cercarono di dare potere alle voci togliendo voce ai poteri. Firmò e alzò la prima Coppa dei Campioni a Vienna, nel 1964, di fronte al Real di Alfredo Di Stefano e Ferenc Puskas, due miti. Contese l’ultima finale all’Ajax, nel 1972, al cospetto di colui che, di don Alfredo, aveva raccolto e distribuito l’eredità, Johan Cruijff. Il calcio nello spazio, non più o non solo legato alla crosta terrestre del ruolo. Il calcio totale.

Chi scrive deve a Mazzola l’emozione di un attimo. Bologna la dotta, Bologna la grassa, ma anche il Bologna «che tremare il mondo fa». Erano le stagioni dei duelli rusticani proprio con l’Inter, la filastrocca che cominciava da Sarti-Burgnich-Facchetti e terminava con Mazzola-Milani-Suarez-Corso. Portiere dei «petroniani» (ah, piccolo lessico antico) era William Negri detto Carburo per via della pompa di benzina gestita dal padre. Si narra che, un bel giorno, il compito d’intervistarlo toccò a un giovane cronista. Era, Carburo, uomo di rare parole. Signor Negri, cosa pensa della partitissima? Riposta: Cavoli miei. Replica del cucciolo: la ringrazio, ma mi hanno chiesto ottanta righe. Contro-replica: cavoli tuoi.

Mazzola, dunque. Era l’8 dicembre del 1966, l’anno di «Uccellacci e uccellini», film di Pier Paolo Pasolini, con Totò e Ninetto Davoli; e di «A ciascuno il suo», romanzo di Leonardo Sciascia. Il menu offriva gli ottavi di Coppa dei Campioni, l’edizione che l’Inter avrebbe lasciato al Celtic nell’eclissi di Lisbona. Avversario, il Vasas. Budapest, gara di ritorno. La televisione trasmetteva rigidamente in bianco e nero. Il salotto era una sorta di «plastico» ruspante e familiare dello stadio. Tutti lì, gli uomini e gli ometti di casa, con le mamme a cinguettare in tinello. D’improvviso, un lampo. Il gollissimo di «Mazzolino», che poi avrebbe concesso il bis. Prese palla e scartò mezza Ungheria. Non tirava mai: più lo si invitava (Luis Suarez: «Se non avesse segnato, lo avrei strozzato»), più dribblava. Finalmente si degnò. Di sinistro. Dopo 12 secondi. Passator cortese, Gianfranco Bedin: il gregario che anticipò la «vita da mediano» di Lele Oriali.

Il gesto del Baffo planò blasfemo sul fruscio di gonne che, negli oratori, erano più lunghe delle sottane dei parroci, e sul fervore di un’Italia appena riemersa dal «tunnel» dentro il quale Omar Sivori, calzettoni giù e padrino del battesimo di Mazzola in un famigerato 9-1, si nascondeva, vizioso e viziante, per adescarci.

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