Rezaei: “Alleno, ho un ristorante italiano a Teheran. Dopo il gol a Buffon…”

Alto come un buon attaccante, roccioso come un grande difensore. Che avrebbe cambiato ruolo era scritto nelle stelle, le stesse che oggi risplendono nelle notti afose di Teheran, fatte di ricordi e nuovi sogni da inseguire. Tutto è cominciato per caso per Rahman Rezaei: nel 2001 il direttore sportivo Fabrizio Salvatori con il suo intuito lo ha scelto. Al resto ci ha pensato il ragazzo originario di Mazandaran che in Italia si è conquistato il suo posto al sole con talento e sacrificio. A Perugia e Assisi, terra di cantici di creature magiche, Rahman ha conosciuto l’amore dei tifosi e della sua futura moglie. A Messina ha trovato il posto perfetto per vivere i suoi anni più belli, prima di Livorno lasciata un po’ con l’amaro in bocca. Rezaei da calciatore ha sfidato i migliori in Europa e qui sogna di ritornare per esaudire un altro desiderio sempre raccomandato alle stelle, simile a quello espresso più di vent’anni fa.

Rahman, come sta?

Bene! Sono a Teheran, fa tanto caldo come in Italia: ci sono quasi 40 gradi. Faccio spesso su e giù da Treviso, dove mio suocero si è trasferito dopo aver lasciato Perugia. Io e mia moglie abbiamo acquistato una casa nel 2007. Lei è nata ad Assisi. Iran e Italia sono speciali per me. Adoro il vostro stile di vita e la vostra cucina. Il vostro Paese piace a tutti.

Lei oggi allena: come sta andando la sua carriera?

Ho guidato un club per due-tre anni nella Serie B iraniana, per tre sono stato nella massima divisione come assistente. Nella mia ultima esperienza ho allenato lo Zob Ahan, una delle prime squadre in cui ho giocato. Per colpa degli errori arbitrali siamo stati penalizzati di 14 punti: ne abbiamo fatti 13 anziché 27. Purtroppo il mio ex presidente ha delle responsabilità in questa faccenda. È stato fatto per mettermi in difficoltà con l’obiettivo di portare un altro allenatore.

Le piacerebbe allenare in Italia?

Tantissimo! So che non è semplice. Ci sono già tanti allenatori bravi in Italia. Chi pensava che Simone Inzaghi sarebbe diventato un tecnico così grande all’Inter e prima alla Lazio? Suo fratello Pippo ad esempio ha fatto fatica al Milan, ora è alla Reggina. Il calcio è imprevedibile. Mi piacerebbe allenare dove ho già giocato: Perugia, Messina e Livorno. Sono cresciuto nella Serie A iraniana, il carattere non mi manca. Dovesse arrivare un’opportunità, la prenderei al volo.

Lei com’è nato calciatore?

Ho seguito l’esempio dei miei fratelli maggiori. Quando ho cominciato non avevo nemmeno dieci anni. Giocavo a scuola, poi a 13-14 anni sono entrato a fare parte di una squadra della mia città. Io sono originario di Mazandaran, ho iniziato a fare il calciatore in una regione del nord dell’Iran vicinissima al Mar Caspio. 

Lei era attaccante agli inizi: come è diventato difensore?

Fino a 17 anni ho fatto il difensore centrale. Poi sono diventato attaccante. L’ho fatto anche alle Universiadi: ricordo i miei due gol contro il Messico a Malaga. Quando sono arrivato nella Serie A iraniana, a metà stagione il mio allenatore mi ha detto che sarei diventato difensore. Ero scettico. Otto mesi dopo sono stato convocato dalla nazionale iraniana.

Seguiva il calcio italiano da bambino?

Poco! Guardavamo di più il nostro calcio 35 anni fa. C’erano le due grandi squadre di Teheran, Esteghlal e Persepolis, io tifavo per quest’ultima. C’è una rivalità grande come quella tra Inter e Juventus, anche se in questo caso parliamo di due squadre della stessa città. Teheran fa 15 milioni di abitanti: il 60% tifa Persepolis, il 40% Esteghlal. La prima in tutto l’Iran ha quasi 40 milioni di tifosi, la seconda è famosa perché è stata allenata da Andrea Stramaccioni.

Com’è nato il suo passaggio al Perugia nel 2001?

Tutto merito del direttore sportivo Fabrizio Salvatori: è venuto in Iran e ha assistito alla mio esordio con la nazionale. Era a Teheran per seguire altri due giocatori, ma alla fine ha portato me a Perugia. Sono arrivato un venerdì pomeriggio di settembre, venivo da un infortunio alla caviglia così mi sono limitato a seguire l’allenamento. Al sabato ho fatto un quarto d’ora di corsa, non mi sono allenato con la squadra. Domenica giocavamo contro il Brescia di Roberto Baggio e Luca Toni. Dopo cinque minuti Sean Sogliano si è fatto male, sono entrato senza riscaldamento e senza sapere una parola in italiano. Ho fatto bene e ho giocato titolare fino alla fine del campionato.

Lo spogliatoio di quel Perugia era multietnico, è stato un arricchimento?

Eccome! C’erano il sudcoreano Ahn, i greci Traianos Dellas e Zisis Vryzas, il colombiano Oscar Cordoba. Poi un gruppo di italiani formidabili: in porta Sebastiano Rossi e Andrea Mazzantini, in difesa Fabio Grosso, a centrocampo Giovanni Tedesco, Davide Baiocco e Roberto Baronio. Tutti insieme formavano davvero una bellissima squadra.

Che cosa ha pensato quando ha visto Grosso vincere il Mondiale?

Gli dicevo sempre che sarebbe diventato un grandissimo giocatore. Aveva gamba, corsa, poi un cross fantastico, grande tecnica. Dopo quelle parole Fabio è diventato campione del mondo con l’Italia. Sono stato tanto felice per lui.

Che cosa ricorda di Serse Cosmi? E della famiglia Gaucci?

Ricordo una bravissima persona e un ottimo allenatore. Cosmi mi diceva cosa dovevo fare per diventare un campione. Mi ricordava sempre quanto fosse importante la concentrazione. Dei Gaucci ricordo benissimo il figlio Alessandro: una brava persona, sempre molto vicina alla squadra. Era quasi nostro coetaneo, questo agevolava il suo rapporto con noi.

È vero che il padre Luciano Gaucci cacciò il sudcoreano Ahn per il gol all’Italia nel Mondiale 2002?

Il presidente era nervoso perché Ahn aveva segnato nella partita condizionata dagli errori dell’arbitro Byron Moreno, però non era colpa sua. Ahn da professionista aveva fatto il suo dovere. Gaucci avrebbe dovuto comportarsi meglio.

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