«Ha diciannove anni, ma ragiona come uno di trenta». Novembre 2012: era appena finita la prima intervista italiana di Pogba e, nei corridoi di Vinovo, il cronista e l’addetta stampa si scambiavano sorprese impressioni sulla maturità del ragazzino che un’intuizione di Fabio Paratici e l’abilità di Mino Raiola avevano fatto sbarcare alla Juventus pochi mesi prima. Il Paul diciannovenne era un giocatore che era riuscito a impressionare Andrea Pirlo («Mister, non facciamo cazzate, questo non va in Primavera, sta qui con noi», aveva detto ad Antonio Conte dopo il primo allenamento con lui) e aveva conquistato lo spogliatoio con la sua allegria e la sua umiltà.
Juve, il Pogba degli inizi
Conte ne aveva forgiato le conoscenze calcistiche, Allegri ne aveva liberato la fantasia, ma l’immenso talento del ragazzo aveva svolto il grosso del lavoro per la trasformazione da promessa (Golden Boy di Tuttosport 2014) a fenomeno internazionale. E tutti concordavano: «Ha la testa del campione». Certo, la acconciava in modo eccentrico, ma non erano tempi bonipertiani e certe follie tricologiche sono servite, anzi, a conquistare i più giovani, creando un personaggio quasi più adatto alla Nba che alla Serie A. E la testa, intesa come capacità di focalizzarsi e di essere atleta, nessuno l’aveva mai messa in dubbio.
Poi è successo qualcosa. Deve essere successo qualcosa. Perché l’inquietante sequenza di eventi degli ultimi anni non è compatibile con quella serietà e quell’applicazione del ragazzo che lasciò Torino nell’estate del 2016 e ci è tornato uomo in quella del 2022.
© RIPRODUZIONE RISERVATA