Pierpaolo Marino rivela: “Spalletti mi disse di no”

Mancavano i palloni e pure l’aria: perché in quei giorni, inghiottito dal nulla, il Napoli era realmente un fantasma. Si pensava fossero leggende metropolitane, invece bisogna aver vissuto in quel deserto, nel silenzio più assordante, come se non ci fosse un orizzonte, dunque un domani. L’estate di diciannove anni fa, come dimenticarla?, Pierpaolo Marino sceglie di osare, si tuffa nel vuoto, prende i cocci della Storia e li incolla, ignaro (ovviamente) che un bel giorno, ma tanto tempo dopo, tra i ciuffi della memoria, sarebbe spuntato uno scudetto nato tra pietre e sudore.

Pierpaolo Marino il 30 agosto del 2004 festeggiava il suo 50° compleanno…

«Comprando Di Natale per l’Udinese».

E dieci giorni dopo…

«Ero a Napoli, convinto dal progetto di De Laurentiis. Chiesi a Pozzo, il presidente dell’Udinese, di concedermi quel viaggio a ritroso nel tempo».

Aveva già vinto.

«E dopo lo scudetto dell’87, quando andai via, ripromisi a me stesso che sarei tornato. Mi affascinava l’idea della ricostruzione totale. Lasciavo un club perfetto come l’Udinese e ripartivo da zero. Non avevamo nulla, neanche una scrivania o una sedia. Zero. Mi appoggiavo nella stanza del direttore del Vesuvio, poi andai cinque giorni a Milano e tesserai ventisei calciatori, ciò che rimaneva sul mercato ormai chiuso».

Vi trasferiste a Paestum.

«Telefonai al proprietario dell’Ariston, perché ricordavo che avevano anche il campo per l’allenamento. Restammo lì per tre settimane o quattro». Primo acquisto, El Pampa Sosa. «Lo chiamai, dopo l’ok di Pozzo. Stava per andare in Spagna e ripartì con me dalla serie C. Una pietra miliare. Poi l’accordo con Montervino e Montesanto, ancora liberi. Sul primo, che sarebbe diventato capitano, chiesi informazioni tecniche a Spalletti, che lo aveva avuto ad Ancona. Vai, fidati».

Dalla C all’Europa, volando.

«Il giorno del debutto arrivai allo stadio in anticipo, vidi file chilometriche ai botteghini e mi commossi. Quando entrai in campo, prima della gara con il Benfica, i sessantamila o forse settantamila, perché all’epoca la capienza era maggiore, scandirono il mio nome. I giocatori portoghesi si chiesero dove giocasse Marino, che ruolo avesse. Pensavano che la gente stesse invocando un calciatore».

Il colpo più bello?

«Lavezzi, perché sofferto. Strappato ad una concorrenza larga, con circa sei milioni di euro. E Hamsik, preso a cinque e mezzo con un blitz».

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Quello mancato?

«Di Natale mi disse di no, nel 2009. Mi sarebbero piaciuti lui e Quagliarella assieme: uno lo avremmo pagato 15, l’altro ci costò 17. Il Napoli ha sempre investito ma è sempre stata una società sostenibile. In C avevamo un fatturato di 15 milioni, quando andai via eravamo arrivati a 140 e un monte-ingaggi da 38. De Laurentiis va preso a modello, ha dimostrato come si fa impresa al Sud: la sua è stata un’opera di ingegneria finanziaria, un insegnamento. E io sono felice di averci messo qualcosa di mio».

Il rimpianto?

«Non eravamo ancora in Serie A, si scrivevano sulla città cose indecenti e ovviamente false, perdemmo qualche occasione. Ma avevamo visto giusto: Modric, Lewandowski e Huntelaar. Non so se mi spiego. Non male, eh?».

Il giorno indimenticabile?

«Uno non basta. Ma la promozione in serie A nel 2007 fu da lacrime. In B c’erano quell’anno la Juventus, il Genoa, il Bologna, il Verona, un bacino d’utenza da Serie A. Noi ci ritrovammo in un biennio dalla Serie B allo Stadio da Luz di Lisbona. Avevamo creato una squadra durata nel tempo».

Andò via dopo cinque anni.

«Conservo uno splendido rapporto con De Laurentiis. E poi Edo, il vicepresidente, per me è come un figlio. Aurelio me lo affidò e ci fu subito intesa. Ci abbracceremo con l’affetto più vero di questa terra».

Ritroverà Spalletti, domani.

«Che volli a Udine e che qui riportai sempre io dopo che era andato via. Bravissimo al punto che nell’estate del 2009 lo contattati perché mi sarebbe piaciuto vederlo sulla panchina del Napoli. De Laurentiis mi disse: vai, fai tu. Ma Luciano penso avesse già dato una parola allo Zenit».

Il cerchio si chiude: il Napoli è rinato con lei, forse a casa sua festeggerà il terzo scudetto.

«Ne sono fiero. Ho conquistato tutto, dalla C al titolo, immagini i sentimenti. Ripenso spesso all’illuminazione per costruire Castel Volturno. Come nomadi, andavamo in giro – Varcaturo, Marano – e una sera mentre eravamo in ritiro all’Holiday Inn vedo quattro torri accese. Chiedo ad un cuoco dell’albergo: ma lì cosa c’è? Un galoppatoio. Al mattino successivo parlo con il Commendator Coppola, proprietario dell’albergo, chiacchieriamo, telefono ad Aurelio e dopo due mesi ci sono i campi».

Cosa c’è nascosto nel futuro di Napoli?

«E chi può dirlo? Un club così virtuoso, con un management illuminato, è capace di tutto. Giuntoli è stato strepitoso, gran lavoro. E Luciano l’ha vinto passeggiando, un dominio assoluto come non si è mai visto».

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