Petruzzi: “Ho pianto per Mou e la Roma. Fidatevi, De Rossi sarà un grande allenatore”

I ricordi come premio alla fine, il coraggio di partire all’inizio: in mezzo una corsa che ha fatto provare qualcosa di unico. Storia di Fabio Petruzzi, il ragazzo di Testaccio classe 1970 che si è innamorato della Roma da giovanissimo e in campo l’ha difesa finché fisico e buona sorte sono stati dalla sua parte. Carlo Mazzone è stato il suo faro nella Capitale e in provincia, la terra del rilancio quando Petruzzi ha lasciato il grande amore giallorosso. A Brescia ha visto dalla prima fila il film di formazione di Roberto Baggio tra gioia e dolore, ha condiviso pensieri e sogni con Josep Guardiola, arrivato dopo il grande Barcellona con l’umiltà e la dedizione che il calcio di provincia richiede. Oggi Fabio è rimasto sul campo come Pep, nel posto dove sognare non costa nulla. Solo una meravigliosa fatica che provare è ancora bellissimo.

Fabio, lei ha scelto di allenare dopo il calcio: come sta andando questo percorso?

Nel 2005 ho guidato le giovanili della Roma: gli Allievi Coppa Lazio e gli Allievi Nazionali. Ho avuto la fortuna di allenare ragazzi come Marco D’Alessandro e Andrea Bertolacci. Vederne tanti in Serie A o in B è bello, sono felice per loro. Alleno i dilettanti, sto facendo la gavetta. Da un annetto impartiscono lezioni individuali. Mi piacerebbe lavorare in categorie superiori. Stiamo a vedere quello che succederà. 

Com’è allenare?

Bello, però è dura. Quando facevo il calciatore pensavo che fosse molto più semplice. Non è facile entrare nella testa di 25-26 giocatori. Il lavoro sul campo è molto bello, fuori bisogna essere bravi. Vivo di calcio. Intervengo spesso in radio e in televisione per parlarne. Il pallone è ancora la mia vita.

Com’è nata la sua storia d’amore con il calcio?

Mi piaceva fin da bambino. Sono originario del Colosseo, a quattro-cinque anni però sono andato nella scuola calcio di Testaccio dove abitava mio zio. Ho fatto tutto il percorso. A 12 anni ho iniziato a fare provini con la Roma. Sono cresciuto nel settore giovanile giallorosso. Purtroppo ero bassetto, un po’ piccolino: era un problema, per questo motivo giocavo poco. Facevo il centrocampista centrale.

Come è passato in difesa?

A 16 anni ho detto a mio padre che volevo tornare a Testaccio per giocare negli Allievi restando sotto il raggio di azione giallorosso. Ho giocato da titolare per un campionato intero, l’anno dopo sono tornato alla Roma con più fiducia in me stesso. Nella Primavera giallorossa Luciano Spinosi mi ha schierato difensore centrale: quel giorno è iniziata la mia carriera.

C’erano altri sportivi nella sua famiglia? Che cosa facevano i suoi genitori?

Mio padre era un venditore ambulante. Aveva giocato a calcio a livello dilettantistico. Io sono l’ultimo di sei figli, di cui quattro maschi e due femmine. Due miei fratelli erano molto bravi a giocare, mia madre  però non è riuscita a stargli dietro. Io ho avuto più possibilità, oltre ai genitori mi seguiva molto mio zio. 

Che cosa ricorda degli inizi?

Ho vinto lo scudetto con la Primavera della Roma, poi sono andato alla Casertana con Francesco Statuto e Leonardo Aiello, due giallorossi. Al primo anno abbiamo conquistato il campionato di C e siamo andati in B. Poi sono tornato alla Roma di Vujadin Boskov. Purtroppo avevo un problema alla spalla. Ho scelto di non operarmi, al primo giorno di ritiro coi giallorossi però mi è uscita. Sono finito sotto i ferri e ho perso tre-quattro mesi. L’anno dopo sono passato all’Udinese dove ho sofferto di ernia del disco, avevo la gamba addormentata. Sono rimasto fuori gli ultimi mesi, poi sono tornato alla Roma con Carlo Mazzone.

Che cosa le ha insegnato il mister Mazzone?

Ero a pezzi, non riuscivo ad allenarmi. Spronandomi, il mister mi ha fatto capire che dovevo tirare fuori quel carattere che non avevo ancora mostrato. Mazzone è stato come un padre. Mi ha fatto crescere in autostima e convinzione. Non smetterò mai di ringraziarlo. Quando mi ha chiamato a Brescia e a Bologna, non ho esitato. Nel 2000 ho lasciato la Roma nonostante avessi ancora due anni di contratto.

Prova qualche rimpianto per aver mancato di poco lo scudetto con la Roma?

Nel 1998-99 con Zdenek Zeman mi sono rotto il crociato. Ho posticipato l’operazione, a luglio sono finito sotto i ferri. Sono rimasto fuori fino a dicembre. Da gennaio ho avuto qualche problema con Capello. Il rammarico per non aver vinto lo scudetto da calciatore c’è, ma l’ho conquistato da tifoso. Conta questo.

Come sta vivendo questi giorni da tifoso giallorosso?

La Roma di José Mourinho ha fatto qualcosa di straordinario. In 52 anni non ricordo niente del genere. L’ho vista vincere lo scudetto con Nils Liedholm nel 1982-83, l’anno dopo perdere la Coppa dei Campioni con il Liverpool all’Olimpico ai rigori. Avevo 13 anni, quella sera ho pianto tanto. Ricordo la sconfitta in finale di Coppa Uefa con l’Inter nel 1990-91. Vedere Lorenzo Pellegrini alzare la Conference League mi ha commosso. Mi è scesa una lacrimuccia quando ho visto piangere un allenatore come José Mourinho.

Questa Roma può aprire un ciclo vincente?

Trovo molte similitudini tra questa Roma e la prima di Capello. Anche allora la base c’era. Sotto Zeman erano arrivati Marcos Cafu e Vincent Candela, Francesco Totti cominciava a fare la differenza. C’erano anche giocatori come Damiano Tommasi e Aldair. La Roma di Capello al primo anno non ha fatto bene in A, al secondo è stato fondamentale l’arrivo di Walter Samuel, Emerson e Gabriel Omar Batistuta. 

Che cosa manca alla squadra per competere con le big?

All’inizio della stagione ha avuto alti e bassi, negli ultimi mesi è cresciuta. Penso che le manchi ancora un po’ di mentalità. Non è un caso che giocatori vincenti come Chris Smalling e Henrikh Mkhitaryan siano stati decisivi. Alla Roma mancano due-tre big. Mou ha portato Tammy Abraham e ne porterà altri così.

Lei ha visto nascere il mito di Totti: che cosa ricorda di Francesco?

Un ragazzo strepitoso. A 16 anni aveva un talento immenso. L’ho visto diventare sempre più importante. È stato un calciatore universale: ha fatto l’esterno con Zeman, il trequartista, spalle alla porta sapeva come mandarti di fronte al portiere. Con Luciano Spalletti da prima punta ha vinto pure la Scarpa d’Oro.

Lo vorrebbe rivedere alla Roma?

Francesco è la Roma, è un simbolo giallorosso. Il Milan ha accolto in società una bandiera come Paolo Maldini ed è tornato a livelli importanti. Francesco Totti, Daniele De Rossi e Giuseppe Giannini hanno scritto pagine importanti nella storia giallorossa. Sanno che cosa significa indossare questa maglia.

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