Perché la Lega ha il dovere di muoversi

Il presidente della Lega calcio, Lorenzo Casini, è un raffinato giurista. Questo articolo è un appello al suo magistero e al suo coraggio. Perché intervenga a salvare il calcio da una contraddizione che può condannarlo al tracollo e all’irrilevanza, e che si può esplicitare così: nessun sistema di relazioni, e quindi anche nessun gioco e nessuno sport, a cui si colleghino rilevanti interessi economici e civili, può fondarsi su regole elastiche e sanzioni imprevedibili. Nessuno stakeholder credibile investirà su una competizione aleatoria dove uno stesso gesto atletico, in due partite diverse o perfino nella stessa partita, può avere conseguenze opposte. In un caso si sorvola, in un altro si alza due volte il cartellino giallo e, conseguentemente, anche il rosso.

Questa vaghezza sanzionatoria sta bene agli arbitri, ma non è colpa degli arbitri. Sta bene perché la discrezionalità è potere. Così può accadere che due direttori di gara interpretino il regolamento in maniera del tutto divergente. Il primo, per così dire, all’inglese, cioè lasciando giocare il più possibile. Il secondo all’italiana, sanzionando tassativamente ogni violazione. Oppure che uno stesso arbitro – è il caso di Rapuano in Napoli-Inter di Supercoppainterpreti il primo tempo all’inglese e il secondo all’italiana, disarmando anche l’adattamento dei calciatori a un regime regolamentare e la loro capacità di prevedere le conseguenze delle condotte di gioco.

Ma non è colpa degli arbitri. Perché il marcio è nella legge, cioè nei regolamenti. Che sono massime di carattere morale, pensate e scritte in tempi in cui il calcio era un gioco dilettantistico, e che oggi rivelano il loro macroscopico anacronismo. Prendete il pestone di Simeone ai danni di Acerbi, che vale l’espulsione dell’argentino. Questo fallo non è sanzionato in maniera tipica e tassativa, ma rientra per esperienza in quella condotta di gioco che il regolamento definisce come “imprudenza”, aggiungendo che questa ricorre quando “il calciatore agisce con noncuranza del pericolo e delle conseguenze per l’avversario e per questo deve essere ammonito”. Messa così, la regola è un palloncino gonfiabile alla bisogna dall’arbitro di turno. Non a caso il pestone, quando è visto dall’arbitro, comporta l’ammonizione in una percentuale vicina al cinquanta per cento dei casi. Una sì e una no. Basterebbe che l’Aia, la Lega o la Federazione, tutte e tre a diverso titolo interessate ad affrontare il problema, facessero un’indagine ricognitiva su un sufficiente numero di partite a campione, per confermare che la punizione col giallo e l’indulgenza stanno alla pari. Il calciatore che volesse prevedere e scommettere sulle conseguenze del suo fallo non avrebbe alcun elemento di certezza nel decidere quale condotta di gioco adottare. Questo vuol dire trasformare uno sport in una lotteria, e vanificare la scientificità di qualunque tattica.

Anche perché, se i regolamenti sono laschi, le norme interpretative di dettaglio, che consentano di ricondurre la generica imprudenza a una condotta specifica, sono carenti, inadeguate, frutto del bagaglio di una categoria, gli arbitri, abituata a regolarsi sull’esperienza. Eppure c’è pestone e pestone. C’è quello intenzionale, diretto a interrompere l’azione dell’avversario o anche a fargli male, che non è connesso alla contesa sul pallone, ma si esprime attraverso l’atto volontario del calpestare la scarpa altrui. E c’è quello involontario, che si realizza quando l’anticipo fallisce per la maggiore destrezza dell’avversario, che tocca per primo la palla, spostandola, e la corsa del piede finisce involontariamente sopra la scarpa di questo. Parlare genericamente di imprudenza, in questo caso, non è corretto, poiché la contesa sull’anticipo è una condotta fisiologica e non patologica del calcio. È giusto fischiare la punizione, per il danno causato all’avversario, ma non dovrebbe essere necessaria l’ammonizione. Almeno quando la palla è a terra e il piede dell’autore del fallo non è posto a martello. È il caso di Simeone, i cui tacchetti finiscono lateralmente sul metatarso di Acerbi solo perché l’interista è più rapido nello spostare il pallone prima che l’argentino lo tocchi.

Nella dinamica di gioco di Napoli-Inter il cartellino giallo è dipeso invece dalla segnalazione che il quarto uomo ha fatto all’arbitro, vincolandolo alla sanzione. È dipeso, cioè, non dalla gravità del fallo, su cui non esiste alcuna norma interpretativa, ma dalla relazione tra i due direttori di gara. In questo modo le regole smettono di essere funzione del gioco per diventare strumenti di potere.

Restituire prevedibilità al sistema è un dovere di tutte le istituzioni interessate a salvare la credibilità del calcio. Per questo facciamo appello al presidente della Lega, affinché convochi una commissione mista di giuristi, arbitri, calciatori e allenatori, chiedendo loro di tipizzare le condotte offensive per limitare la discrezionalità del direttore di gara. Anche se le regole le fa il board londinese dell’Ifab, nulla vieta che le singole giurisdizioni nazionali adottino codici interpretativi in grado di rendere gli arbitraggi più omogenei. Anche se l’iniziativa non rientra nei compiti istituzionali della Lega, sarebbe un prezioso contributo di proposta per riportare un sistema artigianale a un livello scientifico, consono all’importanza che il calcio ha assunto nella dimensione civile ed economica delle società contemporanee.


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