Pelé, la 10 vuota va riempita di sogni

In morte di Pelé si è parlato poco di allenatori. Buon segno. Tiepidi accenni a Vicente Feola, a Joao Saldanha, a Mario Zagalo. Stop. Nessuno si è arrogato il merito di averlo battezzato o cresimato. “Solo” Arrigo Sacchi, celiando, ne ha citato uno: sé stesso. Risale alla partita che festeggiò i 50 anni di O Rei a San Siro, il 31 ottobre 1990. Celebranti, il Brasile pilotato da Paulo Roberto Falcao e il Resto del Mondo affidato a Franz Beckenbauer e al vate di Fusignano. Per la cronaca, e per la storia, vinsero loro, il bavarese e il romagnolo: 2-1.

All’epoca dell’epifania svedese, gli strumenti cognitivi erano ancora rudimentali, e, di conseguenza, si avverte più distanza fra la Perla Nera e qualsiasi tecnico che non tra Diego Armando Maradona e Carlos Salvador Bilardo. Per tacere dei rapporti tattici che, ai tempi del Barcellona, spinsero Pep Guardiola e Leo Messi l’uno nelle coccole dell’altro. Con il falso nueve nei panni di Cupido.

Questa è l’introduzione. Il nocciolo della rubrica riguarda, in compenso, la maglia, con il fatale e fatidico “dieci” sulla schiena. Il Santos intendeva ritirarla, in suo onore, ma è stata proprio la famiglia, ricordandone la volontà, a pregare i dirigenti di non farlo. Non lo faranno. Mi associo. Gesto sublime. Ammainarla non serve. Esponetela come una reliquia, portatela in processione come una Madonna, fatene un simbolo planetario, ma non impedite ai bambini di sognare, attraverso la visione periodica di quella stoffa rara, ciò che Pelé covava fin da quando vide piangere papà per il Maracanazo del 1950: conquistare il mondo.

La maglia non è una pelliccia e neppure un tatuaggio: è una seconda pelle che giustifica un affetto e un rispetto tali da esulare dal bieco fanatismo. Confesso che, in principio e per principio, ero anch’io favorevole all’embargo, convinto che, non farlo, sarebbe stato un sacrilegio, un affronto. Ho cambiato idea.

Attorno al feticismo degli indumenti è esploso un mercato che avrebbe indignato persino Martin Lutero. Gli stilisti hanno azzannato lo stile. Certo, alcune sono un peso, non necessariamente un fregio. Il dieci di Pelé per i brasiliani, il dieci di Maradona per gli argentini e i napoletani. Nel basket Usa è prassi vigente e cogente. Di Kobe Bryant, scomparso tragicamente il 26 gennaio 2020, i Los Angeles Lakers ne avevano “deposte” addirittura due, la numero 8 e la numero 24. Al netto dell’impulso nobile e romantico, rimane l’angoscia di un vuoto che riempie. Molti si aggrappano all’eventuale “indegnità” dell’indossatore; alla zavorra del tessuto, così ingombrante e imponente da sfiancare il più zelante degli eredi. Non sono spunti campati in aria.

Un Santos senza dieci farebbe pensare, esclusivamente, al passato. Un Santos con il dieci, viceversa, farà pensare al passato e al futuro, sentimento da sempre nel cuore di Pelé. Che della sua divisa, grazie al genio creativo, fece un’orma, e non un’arma, di seduzione di massa. Il rischio che possa “premiare” un mediocre non deve spegnere la fiamma dell’impossibile.

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