Paolo Rossi e quella “maglia unica: senti che ti spinge un Paese unito”

Così Pablito ci raccontava al Festival dello Sport di Trento il suo amore per la Nazionale

L’azzurro è stato il colore di un sogno, modellato in fretta in una presenza di famiglia, molto tempo prima che diventasse un orgoglio da indossare. “Mio nonno e papà obbligavano tutti a seguire in televisione qualsiasi avvenimento sportivo. Di conseguenza sono cresciuto in famiglia con la maglia azzurra sempre con me, poi ho avuto la fortuna di indossarla”. Ce lo raccontava Paolo Rossi il 13 ottobre di un anno fa, nell’evento “Forza azzurri” del nostro Festival dello Sport di Trento, dedicato alla conoscenza dei valori della maglia Azzurra, accompagnato dal vice direttore della Gazzetta dello Sport Andrea Di Caro e dal collega Fabio Licari, in compagnia di Antonio Conte, Arrigo Sacchi e Luca Toni.

IL RICORDO PIU’ BELLO

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Ripescare la testimonianza di quella domenica trentina è una carezza sul cuore. “Il ricordo più bello della mia carriera è il giorno dell’esordio in Nazionale: era il 1977, si giocava a Liegi, in Belgio. Il momento dell’inno di Mameli, quello in cui metti la maglia è straordinario. Ti trasmette un grande senso di responsabilità. Senti di rappresentare un Paese, è bello per questo: in quel momento non c’è divisione. Quando giochi con i club il tifo ti porta da una parte o dall’altra, quando c’è la maglia azzurra metti d’accordo tutti. È unica, è magica, ti riesce a trasmettere delle sensazioni e delle emozioni straordinarie”.

MESSICO 1970 A 14 ANNI

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Il fiume di ricordi di Pablito scorre dal 1970. Mondiale in Messico, aveva 14 anni. “Me lo ricordo come se fosse oggi. Vidi la finale con il Brasile a casa con gli amici e la famiglia, perché la Nazionale si vedeva così, era aggregazione: univa tutti. Quando ero ragazzo Riva, Rivera e Mazzola erano i miei punti di riferimento: li guardavo con ammirazione, anche se non somigliavo a nessuno di loro. Quella finale mi ha lasciato un’amarezza incredibile ma di fronte c’era il Brasile di Pelè, un mito con il quale sono cresciuto: quando fu a Firenze per una gara di beneficienza finii per guardare solo lui per 90’”.

BEARZOT DURO E GIUSTO

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E poi? Ovvio, il Mondiale in Spagna del 1982. “Ho avuto la fortuna di giocare in una generazione di grandi calciatori, ma in Spagna è stata la vittoria del gruppo, noi addirittura i primi a fare il silenzio stampa”. “Ci davano tutti per spacciati, poi arrivò l’Argentina, una partita che ci ha restituito una fiducia incredibile. Il mio Mondiale? Particolare, unico, come tutta la mia vita che è stata davvero un film: arrivavo da 2 anni di squalifica, avevo giocato 3 partite di campionato. In avvio feci una fatica incredibile: non riuscivo a stare concentrato, non avevo le misure e il ritmo. La mia fortuna è stata trovare Enzo Bearzot, ha creduto in me fino in fondo. Senza di lui non starei qui a raccontare: era un uomo duro, ma sapeva quando usare la durezza. Dopo la tripletta al Brasile, tornando in albergo, in pullman si sedette accanto a me. Mi aspettavo qualcosa, invece non disse nulla. Le sue uniche parole furono: “Inizia a pensare alla prossima”. Quella tripletta gli cambia la vita. “Anni dopo mi trovavo a San Paolo e presi un taxi. Il tassista, guardandomi dallo specchietto, mi disse “Paolo Rossi?”, “Si, sono io”. “Scenda dal mio taxi”. Di recente sono stato a casa di Zico: ancora non riesce a capire, ho provato a spiegargli perché persero, peccando di presunzione”. Prima dei saluti, un anno fa a Trento, Pablito lanciò l’augurio alla Nazionale di oggi di Mancini: “Ha riacquistato un’identità e ha ricreato entusiasmo: non so se riusciremo a vincere l’Europeo ma, perché no…, proviamoci”. Per Pablito.

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