Paolo Berrettini denuncia: «In Africa c’è fame e passione, da noi in Italia si sono perse»

L’Africa ormai è diventata casa per Paolo Berrettini, il tecnico italiano che nel 2003 è stato campione d’Europa da ct dell’Italia Under 19, la nazionale di Chiellini e Aquilani che salì sul gradino più alto del podio, con un gruppo e che si identificava molto nel suo allenatore passato per le esperienze con Elettrocarbonium, Narnese, il club di casa, Viterbese e Rieti. Oggi Berrettini, con un occhio in Africa e uno in Italia, traccia un quadro della situazione, a livello di talenti e attraverso la sua analisi mette in piedi un paragone tra le due realtà. Primo punto, la valutazione delle annate e delle caratteristiche tecniche e caratteriali dei singoli. «Nella mia esperienza mi sono reso conto di come le singole classi di età possano esprimere caratteristiche e livelli differenti. Ci sono annate benedette, dove il talento fiorisce e lo vedi subito, ci sono giocatori che maturano successivamente, hanno bisogno di più tempo, magari vengono anche abbandonati al loro destino e poi li ritrovi ad alti livelli in età più matura. E ci sono poi quei calciatori che hanno grandi qualità, ma che mancano di quello spirito di sacrificio e di quell’umiltà che servono per scalare i livelli verso l’alto. E si perdono». Ecco, immediato, il primo parallelismo con l’Africa. «Da ct delle giovanili della Repubblica del Congo – spiega Berrettini, partito con l’esperienza del De Camberene alla Viareggio Cup – visionando i talenti under 17 e under 20, ho visto subito che mancavano magari le strutture, le nozioni tattiche, ma alle carenze sopperivano tenacia, grinta, passione, fame. Da noi troppo spesso tutto questo manca, tra le società, i genitori e talvolta gli stessi allenatori, si crea un meccanismo che tende a cullare i giovani, viziarli. E questo alla lunga li danneggia. E così arrivo alla conclusione che l’Africa andrebbe scandagliata in modo diverso e più attento dagli osservatori europei. Io di talento qui ne vedo davvero tanto e quando posso lo segnalo».

Da cosa dipende questo rilassamento che finisce talvolta per prevalere sulla crescita del talento in Italia, talvolta. Berrettini spiega: «Sorrido quando sento dire che la crisi dei settori giovanili italiani sarebbe da addebitare alla presenza di troppi stranieri. Nel tempo di una società sempre più multietnica, mi sembra un anacronismo attaccarsi a questo. Piuttosto mi capita di vedere ragazzi italiani che si accontentano magari di indossare la maglia del club blasonato in cui giocano e questo li fa sentire già arrivati, senza più la luce della passione negli occhi. L’Africa mi ha insegnato a riconoscere bambini scalzi, pieni di talento, che inseguono un pallone e un sogno e dentro hanno il fuoco sacro che oltrepassa povertà e indigenza, sfida per prime loro, per vincerle. Io continuo a credere che anche da noi ci siano ragazzi così, animati dalla voglia, dalla passione: non saranno la maggioranza, ma ci sono e vengono stritolati da un sistema che non è più sano, che risponde a logiche non sempre chiare, dove gioca o talvolta allena chi porta sponsorizzazioni. E si penalizza tutto il resto. E se un ragazzo di talento non gioca si disamora».

Fin qui le motivazioni. Poi c’è la carenza tecnica: «Sembrano ovvietà, ma dovremmo imparare a riflettere che non lo sono affatto. Prima si giocava ovunque, a due, a tre, al muro, il pallone lo toccavi cinquecento volte al giorno. Ora si gioca ad 11 in campi di 50 metri e quello stesso pallone finisci per toccarlo 40 volte al giorno. E così la tecnica non la alleni. Vedo troppi ragazzi giocare a testa bassa, senza guardare il compagno. Ve lo dico senza mezzi termini: quando vedo una partita di settore giovanile, mi assale un po’ di tristezza e smetto di farlo». L’Africa è maestra di vita: «Un Continente straordinario, magico, mi ha insegnato tantissimo e continua a farlo. Tocchi la fame più profonda e la voglia di riscatto che fa superare le difficoltà. La miseria in cui vivono tutti i ragazzi fa scattare in loro un’energia volitiva sana, ammirevole. E questo porta ad un ragionamento consequenziale inequivocabile: se questa voglia, questa motivazione, questo spirito, li cali in un ambiente che ha risorse e che consente a questi ragazzi di vivere e mangiare meglio, allenarsi meglio, in strutture adeguate, non potrai che avere un risultato importante e a veder sbocciare talenti assoluti».

Dal Congo, all’Accademia a Dakar, Paolo L’Africano va avanti: «Finita l’esperienza nel Congo – racconta Berrettini – ho deciso di aprire una Accademia a Dakar perché fare calcio in questo continente mi ha dato molto ed ho sentito la vocazione di dover continuare a dare loro il mio know-how di allenatore. Il talento, le basi tattiche e tecniche ci sono in questi ragazzi. Vanno allenate ogni giorno, tirate fuori, sviluppate, senza darle per scontate. Noi e loro. Ma questo principio, credetemi, vale sempre: ecco perché anche in Italia ci sono giovani calciatori che nascono con qualità di base importanti, ma poi si perdono. E qui sta l’errore. Anche per allenare ci vuole passione. Quando sono arrivato alle nazionali giovanili dalla gavetta della Serie D e della Serie C sapevo intanto come parlare ai ragazzi. E poi sapevo che per restare il quel contesto, dove spesso i meccanismi di ingresso possono anche essere altri, avevo poche strade, anzi una sola: vincere. Ci ho provato e ci sono riuscito. Ma stando con la stessa e il cuore sul campo, con loro». Avanti con l’Africa dunque: «Io ho dato e sto dando, ma questo continente dal punto di vista umano e calcistico mi ha restituito tanto. E sono sicuro che continueremo a scambiarci tanto altro ancora».


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