Operazione Campiomorto, cosa rischia la serie A

Dei fondi insistiamo a scrivere al presente, ma se giovedì prossimo i venti club non si metteranno d’accordo, o se prima di allora i private equity, ora freddissimi, si sfileranno, la serie A dovrà proseguire con le proprie forze, che sono insufficienti, oltretutto indebitandosi ulteriormente.

Abbiamo scritto “serie A” anche se, per la verità, le ultime mosse di Juve e Inter (Agnelli, Marotta e l’avvocato Cappellini) fanno pensare che i top team stiano lavorando in funzione della Superlega, considerata l’unica soluzione praticabile soprattutto da un Barcellona tecnicamente fallito e dal Real di Florentino Perez, il cui blitz a Torino del 19 gennaio aveva come scopo proprio il raggiungimento dell’intesa sul campionato dei ricchi (di un tempo). O meglio, delle realtà più nobili.

L’altro ieri l’assemblea avrebbe dovuto decidere sulla ripartizione delle risorse e confermare il contratto (term sheet) con la cordata CVC-FSI-Advent. Ha invece preso altro tempo. Ma, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, il rinvio non è stato di natura tecnica. Tutt’altro.

Cosa è accaduto? Che in Lega ci fosse una fronda – guidata da Claudio Lotito – intenzionata a far saltare l’operazione mantenendo lo status quo, è cosa nota. Nella fase preliminare la proposta alternativa di Fortress (mega-prestito) si era però bloccata poiché una larga maggioranza sostenuta da Juve, Inter e Milan aveva scelto di destinare il 10% del capitale alla media company – il CdA del Milan l’ha peraltro già approvato.

Da qualche settimana la bilancia pende dalla parte dei No Fund, essendosi arruolate Juve e Inter. L’elemento nuovo è – appunto – la Superlega, ovvero il progetto di sostituzione della Champions con una manifestazione autogestita dai top club che uscirebbe dall’orbita Uefa per concentrare la massa dei ricavi sui conti dei fondatori – la Uefa, da parte sua, sta lavorando sulla Super Champions. Secondo un documento che circola da mesi, i fondatori (15, forse 16) avrebbero i posti garantiti, mentre il resto d’Europa si giocherebbe le restanti cinque “card” attraverso i campionati nazionali (e turni preliminari di qualificazione). Semplice l’articolazione: due gironi da 10 squadre con gare di andata e ritorno, le prime quattro di ogni girone accedono a quarti, poi semifinali e finale con partita unica. Impegni infrasettimanali, tranne la finale (sabato) e ogni club conta su un minimo di 18 partite.

Chi sono i fondatori? Le Big Six inglesi (United, City, Liverpool, Chelsea, Tottenham e Arsenal) e poi Bayern, Milan, Juventus, Inter, PSG, Real, Barça, Atletico, Ajax e forse il Benfica. La Superlega prevederebbe 193 partite contro le attuali 125 della Champions. Quindi più ore di trasmissione e più sponsor. Ricavi previsti: 4 miliardi, da dividere per 20. Ognuna riceverebbe da 100 a 350 milioni all’anno, in base alla fascia di collocamento, triplicando gli introiti attuali. Non sono stime assurde: nel 2019 la Uefa ha incassato 3,25 miliardi. Tolti costi, premi di solidarietà e quota Uefa (6,5%), ne ha erogati 2,5: sottratto anche il montepremi Europa League (500 milioni), restano 2 miliardi per la Champions distribuiti tra 42 squadre. Il vantaggio per l’élite del calcio europeo sarebbe schiacciante.

La pandemia ha evidentemente accelerato il progetto poiché alcuni club si ritrovano in gravissime difficoltà finanziarie e altri devono rientrare da investimenti colossali, difficili da coprire con gli stadi chiusi e gli sponsor in bilico. Fa paura il buco nei bilanci, ma ancor di più il deficit di cassa, che espone al default.
I padroni dello spettacolo ragionano così: noi abbiamo i campioni, investiamo centinaia di milioni, allestiamo gli squadroni che alzano gli indici di ascolto e consentono alla Uefa di vendere lo show in tutto il mondo. Con il nostro fatturato manteniamo un’organizzazione che disperde i ricavi in mille rivoli: è giunto il momento di concentrare il valore. Florentino Perez, architetto del progetto, tesse la tela da più di un anno. Poi ci sono le esternazioni di Bartomeu, presidente defenestrato del Barça, che dichiarò candidamente di averne approvato l’adesione prima di uscire. Si aggiungono i leaks sulla partecipazione delle Big Six inglesi e di Tebas, presidente della Liga, che ha accusato di recente Infantino di sostenerla sotto traccia. Sullo sfondo la guerra strisciante tra i poteri del calcio, con la Fifa che malsopporta la forza economica della Uefa.

Cosa c’entra tutto questo con la media company? I fondi non hanno l’anello al naso. Pretendono una clausola di responsabilità che imponga ai club, e non alla Lega, ente non riconosciuto, di preservare il valore dei diritti di Serie A. Su questo punto si sarebbe arenata strumentalmente l’operazione, con l’Inter mostratasi, a sorpresa, riluttante. Comprensibile: Zhang è costretto a vendere per i noti problemi finanziari, ma la Superlega raddoppierebbe il valore del club. Mentre chiudeva giorni fa a BC Partners, uscivano voci sul soccorso di Fortress. Ieri il Financial Times ha rivelato che Suning cerca 200 milioni di finanza straordinaria per tamponare gli impegni salvando la stagione. E proprio Fortress è il cavaliere bianco di Lotito, pronto a rimpiazzare i fondi di private equity e coprire con un fi nanziamento il fabbisogno fi nanziario dei club di Serie A. Coincidenze?

Ora, salvo nuovi imprevisti, per chiudere la partita servono 14 voti favorevoli su 20. Ma è scontato il no della Lazio, seguita da Atalanta, pur se Luca Percassi non ama vedersi associato al presidente della Lazio, Napoli, Verona e Fiorentina. In bilico l’Udinese, diventano decisive Inter e Juventus.

Quale, l’argomentazione – assai bizzarra – degli oppositori? Essenzialmente questa: cedere a 1,7 miliardi il 10% di una società vuota metterebbe il futuro del calcio italiano in mano ai fondi. Per alcuni risulterebbe un fi nanziamento mascherato a costi elevati. Tutto ciò nel momento in cui la Serie A non riesce a raggiungere il valore target per i diritti televisivi in asta.

Nello scenario alternativo (il finanziamento) il sistema Italcalcio oggi indebitato al 90% si caricherebbe un nuovo debito che andrebbe, questo sì, restituito ipotecando gli introiti futuri per assicurare il pagamento di interessi e capitale, mentre una partecipazione azionaria non andrebbe restituita. I fondi non sono benefattori, ma hanno interesse a lavorare per valorizzare i diritti, migliorando la capacità della Serie A di venderli nel mondo. È l’unico modo con cui un socio può guadagnare, mentre un finanziatore può sempre portar via le chiavi in caso di default. Differenza non da poco. C’è un altro aspetto da sottolineare: quale segnale invierà la Serie A agli investitori stranieri interessati ai nostri club? Che messaggio arriverà all’estero se Friedkin, Commisso, Krause e gli altri si ritroveranno senza stadi, senza diritti televisivi e con una bella montagna di debiti accesi per coprire i buchi delle gestioni precedenti?

Marianna Madia fu paracadutata alla Camera sull’onda della sua dichiarazione: «Porto in Parlamento la mia straordinaria inesperienza». Alla prima seduta le assegnarono il posto accanto a quello di Massimo D’Alema. Lei si presentò. «Diciamo che la conosco, signorina», le rispose il politico. E lei: «Eh, presidente, purtroppo sono perseguitata da quella frase infelice». E D’Alema: «Le do un consiglio: c’è solo un modo per far dimenticare una cazzata, e la sua era tale. Spararne una ancora più grossa».

Qualcuno in Lega deve avere ascoltato quel dialogo. E ne ha fatta sua l’essenza.

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