Napoli, se nulla accade per caso

Una cosa, su tutte, impressiona. Ed è la testa. La testa sta al centro del gioco degli azzurri. Razionalità pura, perché nulla accade per caso. Quando si accelera, quando si amministra il vantaggio, quando si contiene l’avversario, impedendogli di toccare palla. Così accade che il Cagliari faccia 336 passaggi e il Napoli 738, più del doppio, con un possesso palla del 68 per cento. Ospina a momenti si addormenta. 

Poi c’è lo stato di grazia dei singoli. Tre su tutti. Osimhen, passato in un anno dalla condizione di meteora, pagata troppo, a quella di fuoriclasse, destinato a lasciare il segno. Perché ha già il Napoli sulle spalle. Se lo carica come fosse una piuma e lo porta a spasso in mezzo alla difesa avversaria. Sempre d’anticipo. Che sia un rilancio del portiere, un disimpegno della difesa o un assist da volgere in gol. Come quello perfetto di Zielinski, imbeccato da un corridoio di Anguissa. Quando nel secondo tempo Godin afferra il centravanti nigeriano per le gambe, atterrandolo, Mazzarri dalla panchina si dispera, chiedendosi come abbia fatto un giocatore esperto come l’ex interista a cadere in un errore simile. In realtà quello del centrale cagliaritano è un fallo di frustrazione. Osimhen gli è sfuggito tante volte da fargli perdere la testa. 

Il secondo pilastro è il neo acquisto camerunense. I tifosi napoletani si aspettavano un sostituto di Bakayoko, è arrivato un centrocampista prestante e veloce, tecnicamente elegante, tatticamente intelligente. Allegri scambierebbe tutti i suoi pseudomediani in cerca d’autore per avere un protagonista come Anguissa. È arrivato l’altro ieri, par che giochi nel Napoli da sempre. 

Completa il trio il capitano azzurro, quello che si diceva, ancora l’altr’anno, un mezzo giocatore. Solo un mezzo giocatore può stoppare la palla di controbalzo in corsa con l’esterno del piede, facendo tunnel al suo marcatore. Perché il baricentro di Insigne non è un handicap, ma un dono della natura, non a caso giunto dal cielo nello stadio che porta il nome di Maradona. Con il rigore segnato ieri, quattro gol separano lo scugnizzo azzurro dai 115 del Pibe. 

Le note di merito le lasciamo alle pagelle, e ce n’è per tutti. Ma una sottolineatura riguarda il tecnico che ha cambiato l’anima di questa squadra, sguainandola come una pelle e rivoltandola all’incontrario: rimane tutto il talento degli azzurri in una corteccia più dura. Questo carattere meriterà prove più severe, come quella di giovedì contro lo Spartak e, soprattutto, quello del 3 ottobre a Firenze contro una Viola che pure ha messo la testa a profitto. 

Sapremo allora se il paragone con il Napoli del terzo Sarri, partito allo stesso modo con sei vittorie di fila, non è pretenzioso. C’erano, in quella squadra, Jorginho, Hamsik, Allan e il Mertens ancora in grado di fare 18 gol (l’anno precedente erano stati 28). Ci piace pensare che questo Napoli si porti dietro la memoria creativa di quella straordinaria stagione, con un pizzico di maturità in più. Ma dirlo è un azzardo, almeno per ora. Limitiamoci allora a pensarlo segretamente.

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