Napoli-Milan, la foga e la ragione

Perdere tre volte allo stesso modo – perché questo pari è peggio di una sconfitta – scoprendosi in inferiorità numerica contro una squadra più veloce in contropiede, è un esercizio di masochismo. Il Napoli l’ha compiuto. Per inesperienza, per rigidità tattica che rasenta la cocciutaggine, per supponenza e rinuncia a rispettare l’avversario. È un peccato di hybris, cioè di quella tracotanza che ti porta fuori dalla realtà. E poi fuori dalla Champions. Perché t’illude di poter giocare con il Milan allo stesso modo con cui giocheresti con il Torino o l’Udinese. È un peccato condiviso in egual misura, ma con responsabilità diverse, tra la squadra e Spalletti. La prima perché sacrifica la furbizia per l’agonismo e pretende di primeggiare sempre nei contrasti, ignorando di considerare se di fronte ha Calabria o piuttosto Leão. Il secondo perché ha costruito la sua rivincita con lo spirito del giocatore d’azzardo che, di fronte a ogni perdita, raddoppi la puntata nel tentativo di rifarsi. Così il Napoli spende i tre quarti delle energie nei primi venti minuti. Così si ripete nell’errore che gli è già costato due sconfitte, osando sulla trequarti senza coprirsi le spalle, ed esponendosi alle ripartenze dei rossoneri. Certo, nel computo di questa partita, c’è da mettere, in aggiunta ai due rigori giustamente concessi a Milan e Napoli, quello scandalosamente negato a Lozano dall’arbitro e dal Var, che ignorano, con un dilettantismo inaccettabile per la massima competizione europea, un fallo nettissimo.

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La capacità di finalizzare

E c’è da mettere in conto, ancora, la diversa capacità di finalizzare dei due fuoriclasse, che fanno, nel bene e nel male, le sorti della gara: Leão, che regala dopo una fuga irrefrenabile un assist delizioso a Giroud; Kvaratskhelia, che spreca due gol a un passo dalla porta, dopo essersi brillantemente liberato della marcatura. Ma il motivo dell’eliminazione è tutto nel forcing generoso ma prevedibile che il Napoli porta al Milan, con l’irragionevole foga che richiama l’assedio dei persiani al Pireo, quando le grandi navi di Serse furono imbrigliate e affondate dalle più agili triremi ateniesi nella battaglia di Salamina. Così Temistocle-Pioli vince la sfida tattica con Spalletti e salva, insieme con la sua stagione, l’egemonia delle squadre del Nord nelle competizioni internazionali. Questa partita è, in un certo senso, una misura dei limiti del Napoli, capace di fare possesso palla per ottanta minuti, ma incapace di adattarsi al gioco dell’avversario. Limiti che la serie A nasconde, e la Champions squaderna. Ci sarà da riflettere e fare tesoro di questo tracollo, perché al Maradona ieri è caduta la squadra più completa e più creativa del campionato, sulla carta anche la più forte, ma non la più matura. La più matura, dopo due schiaffi subiti in contropiede, e dopo la squalifica di Kim e Anguissa, non si sarebbe limitata a sostituirli, lasciando inalterato un assetto tattico che il Milan aveva già dimostrato di poter ribaltare. Domani è un altro giorno, e lo scudetto presto scenderà come un balsamo sulle ferite azzurre. Ma perché non resti una cicatrice occorre una diagnosi non reticente di ciò che è accaduto, e una robusta terapia di crescita, rivolta alla testa più che alle gambe. Il dottor Spalletti ha l’onestà e la competenza per somministrarla.

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