Napoli, Luis Enrique ha l’arte di costruire e rinnovare

Costruire è il verbo che gli piace di più: ecco la prima regola di Luis Enrique, nato a Gijon, scogliere e sabbia argentata, la città della Playa di San Lorenzo e dei vigneti. “Un arquitecto de fútbol”, caratteristica che può rafforzare nei ragionamenti di De Laurentiis una certezza: quella che Lucho, senza contratto dall’8 dicembre, dopo il divorzio con la federazione spagnola, sia la figura ideale per sostituire Spalletti e impostare il Napoli del futuro. È sempre stato l’uomo del rinnovamento e della “creatividad”, anche se in questa sua lunga evoluzione ha conosciuto il buio e l’abisso, come lo chiama lui, per la morte di sua figlia Xana, portata via a nove anni da un tumore alle ossa. Aveva pensato di smettere, di lasciare tutto, nel 2019: ha trovato la forza di riemergere. È cresciuto a pane e tiki-taka, ha studiato gli schemi di Cruijff e Guardiola.

Da Conte a Luis Enrique: le idee di De Laurentiis per il dopo Spalletti

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Luis Enrique, il visionario

Ma chi lo considerava, all’inizio della sua carriera da allenatore, solo un allievo di Pep, dopo un po’ di tempo ha dovuto ricredersi. Luis Enrique ha saputo partire da un’idea di base e trasformarla, lasciando la sua impronta digitale: “construir” fa parte della sua cultura manageriale. La Roma, nell’estate del 2011, era stata la prima società a intuirne valore e modernità, ma il calcio italiano – per tradizione – non si sposa con la politica dell’attesa e della pazienza. E a Trigoria, lo slogan del “tutto e subito” che gli veniva chiesto, è diventato il suo nemico invisibile, l’ostacolo più grande. Faticò a integrarsi, affittò una casa all’Olgiata, dall’altra parte della città. Fu eliminato in un preliminare di Europa League dallo Slovan Bratislava puntando su tanti giovani: Viviani, Caprari, Verre e Okaka. La Serie A gli ha fatto conoscere le incognite della giungla. Lo ha aiutato a formarsi, a completarsi, a maturare. Forse anche un po’ a correggersi, perché nella prima fase del suo percorso passava per un tecnico rigido, integralista, quasi dogmatico. Ma poi, in realtà, si è scoperto che dietro a quella durezza c’era un po’ di timidezza. È un visionario, Luis Enrique. L’idea di vederlo sulla panchina del Napoli è suggestiva. Contiene un fascino e soprattutto una logica. La storia dello spagnolo dimostra che le pesanti eredità è riuscito non solo a gestirle con sapienza, ma anche ad arricchirle.

Il Barcellona delle meraviglie

Dopo il lavoro splendido svolto nel Celta Vigo con Rafinha e Nolito, Charles e Fernandez, era stato chiamato a ridisegnare un Barcellona che rischiava di inciampare nel post-Guardiola e in quella dipendenza totale da Pep. Eppure Lucho si è preso la scena al Camp Nou, inventando una squadra nuova, diversa, almeno a livello tattico. In tre anni ha conquistato nove trofei, smontando la tesi di chi pensava che si dovesse andare incontro a un periodo di transizione dopo la bellezza del calcio di Guardiola. Ha vinto due campionati, tre Coppe del Re, una Supercoppa di Spagna, ma ha soprattutto regalato nel 2015 la Champions e il Mondiale per club. Ha saputo aprire un’altra epoca, modellando una squadra in grado di trovare gli equilibri giusti. Tridente vero: Messi, Suarez e Neymar. Elogi e applausi. Busquets come scudo davanti alla difesa. L’arte di Xavi e Iniesta. I chilometri e la qualità di Rakitic.

I due amori di Luis Enrique

Luis Enrique ha due amori: il calcio e il ciclismo. A Barcellona è riuscito a viaggiare su un binario che tenesse i tifosi distanti dalle nostalgie legate a Guardiola. E anche nella Spagna, da ct, ha saputo rinnovare un gruppo che si era specchiato nella genialità di Iniesta e Xavi, conquistando l’Europeo del 2008 con Luis Aragonés e poi il Mondiale del 2010 e l’Europeo del 2012 con Vicente Del Bosque. È stato chiamato nel 2018, ha aperto la strada a una nuova generazione di talenti: Pedri, Gavi, Ansu Fati, Pau Torres, Yeremi Pino, Dani Olmo, Ferran Torres. Un lavoro spezzato dal dramma di Xana e poi ripreso, fino al Mondiale in Qatar, quando la federazione gli ha presentato il conto per la sconfitta negli ottavi contro il Marocco. Era quasi Natale: si è riposato a Gijon, è andato in bici, ha dedicato tempo alla moglie Elena e agli altri due figli Sira e Pacho. Aspetta un’opportunità. Napoli sarebbe la soluzione perfetta. 

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