Napoli, capolavoro ma sostenibile. Nel segno di Spalletti

Dopo la rivoluzione dell’estate, il tecnico ha realizzato un meccanismo perfetto: non c’è giocatore che non sia migliorato

C’è stato solo il Napoli, dall’inizio alla fine. Ha vinto la squadra più bella, la più forte, quella che ha segnato di più, quella che ha difeso meglio. Nessuna aveva mai conquistato con tanta apparente semplicità lo scudetto, nessuna ha mai dato l’idea di poter competere per strapparglielo. Il campionato non è mai stato un dialogo, ma un lungo, spettacolare monologo. Il Napoli non ha dovuto superare nessuna Nuttata, è stato sempre mezzogiorno. Lo scudetto esce dal triangolo Juve-Inter-Milan dopo 22 anni. Torna al Sud dopo 33. Gli scudetti di Lazio e Roma misero economicamente in ginocchio i due azionisti e quindi i due club. Il trionfo del Napoli è stato invece costruito sul solido principio della sostenibilità. Usciti Insigne, Mertens, Koulibaly, Ruiz, Ospina. Dentro Kvaratskhelia, Raspadori, Simeone, Kim, Ndombele.

Al miracolo ora gridano tutti al punto che Giuntoli è diventato il profeta del mercato, ma nessun direttore sportivo ha mai dato un gioco a una squadra. Sullo scudetto c’è inciso il nome di Aurelio De Laurentiis, che ci ha creduto quando non ci credeva nessuno, senza aver paura di una piazza che l’ha contestato oltre ogni ragionevolezza, dimenticando che cos’era il Napoli dopo il fallimento. Poi c’è chi ha trasformato un’incognita in un capolavoro: Luciano Spalletti. Il tecnico è arrivato al suo anno magico dopo le stagioni ustionanti con Roma e Inter. A Napoli nella prima stagione ha lottato per lo scudetto. Al secondo tentativo l’ha vinto. Di solito la squadra che lo sfiora viene confermata, i cambiamenti sono pochi, mirati. Semmai si aggiunge laddove sono emersi punti deboli. Il Napoli invece è stato rivoluzionato. È cambiato così profondamente, senza che nei cambi fosse evidente un miglioramento tecnico, che nessuno sotto il sole d’agosto ha chiesto a Spalletti di vincere il campionato. D’altronde cosa vuoi chiedere a un allenatore a cui hanno tolto Koulibaly, il totem della difesa, Mertens detto Ciro, l’attaccante che ha segnato più gol con quella maglia e perfino Insigne, orgoglio napoletano? Invece proprio perché stavolta gli chiedevano poco, Spalletti ha dato tutto.

La leggerezza è stata senz’altro elemento fondamentale del suo campionato perfetto. Spalletti ha capacità che lo hanno sospinto su panchine di grandi, perciò difficili, club, ma i suoi capolavori li ha creati con Empoli e Udinese, province ideali per esprimere al meglio l’ossessione del lavoro, inseparabile compagna di Spalletti, e dove, soprattutto, la pressione è minima. Nel Napoli post rivoluzione ha potuto mettere insieme, con tranquillità, i pezzi del suo meccanismo irresistibile. A cominciare da Osimhen, centravanti formidabile, imprendibile, imprevedibile. Per continuare con Kvaratskhelia, giocatore dai mezzi notevoli, che Spalletti ha sgrezzato fino a farlo diventare un protagonista di livello europeo. E avanti con Lobotka, Anguissa, Kim, Politano e Meret, che nemmeno per un secondo ha risentito delle critiche dell’anno scorso. Non c’è un giocatore che non sia migliorato. Il simbolo è Di Lorenzo, che lavorando è diventato il capitano insostituibile di questa squadra da record. Nessuno di loro è napoletano. Gino Palumbo, Direttore indimenticato della Gazzetta che del giornalismo è stato un maestro, il giorno del primo scudetto, nell’87, disse che nessuno è straniero a Napoli. Anche oggi è così. Anche questo successo è l’impasto riuscito di un gruppo calato perfettamente in un ambiente difficile quanto unico. Gli ingredienti principali: creatività e applicazione.

Spalletti, per esempio, ha interpretato meglio di tutti la follia di una stagione con il Mondiale piantato nel mezzo, tra novembre e dicembre. I cali fisici, che pure ci sono stati, sono arrivati a scudetto ormai conquistato. Juve, Inter e Milan, invece, di peggio non avrebbero potuto fare. Se non era mai successo che nessuna delle tre grandi del Nord, a questo punto della stagione, fosse in grado ancora di vincere il campionato, significa che gli errori sono stati tanti e diffusi, tra dirigenti e tecnici. Certo nel conto va considerato che Inzaghi e Pioli hanno avuto la capacità di salire sul treno Champions arrivando fino alla gloria della finale di Istanbul: per uno dei due ci sarà di sicuro. Risultato che non giustifica un campionato così deludente, ma almeno lo spiega. La Juve nemmeno quello. In due stagioni, Allegri è finito lontanissimo dallo scudetto pur avendo a disposizione una squadra con individualità notevoli e costi pesanti. Invece pochi punti, poco spettacolo. È vero che per Allegri chi vuole divertirsi può andare al circo, ma il suo teorema regge finché vince, poi non regge più. Resta ancora un pezzo importante di stagione, giusto aspettare Juve, Inter, Milan fino a giugno. Il mese dei giudizi. Il Napoli che festeggia lassù è intanto molto lontano.

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