Passione e carattere, le parole giuste al momento giusto, la dolce notte da campioni d’Europa senza la quale non ci sarebbe mai stata quella sul tetto del mondo. Sergio Porrini ha 54 anni e aspetta l’occasione per capire che allenatore sarà
13 gennaio
Certi incontri cambiano la vita. Estate 1993, ritiro della Juventus: Sergio Porrini è solo un ragazzo di belle speranze al cospetto di Gianluca Vialli, l’uomo che porta con sé l’esperienza di chi ha già vinto. Nasce così un rapporto professionale che sfocia presto nell’amicizia tra allenamenti duri, pranzi veloci e cene infinite. Si parlava di tutto: dal calcio alla religione fino a quello che ci attende dopo questa vita. Estate 1996: l’Inghilterra chiama Gianluca dopo la Coppa dei Campioni alzata a Roma con la maglia della Juventus e lui risponde presente. L’anno dopo Porrini segue la sua scia spingendosi ancora più a nord. Fino in Scozia a Glasgow, al cospetto di un altro mostro sacro del pallone: Paul ‘Gazza’ Gascoigne. Negli ultimi dieci anni la vita di Porrini è cambiata ancora dopo un altro incontro: quello con il mister Edy Reja nel 2015 a Bergamo con cui ha vissuto la sua ultima esperienza da vice allenatore. Adesso Sergio deve scegliere cosa fare da grande. Chissà che non abbia chiesto qualche consiglio al cielo lunedì a Cremona, nel giorno dell’ultimo saluto al suo capitano Gianluca.
Sergio, come sta andando il suo percorso da allenatore?
Ho cominciato 14 anni fa dopo aver smesso di giocare. Ho iniziato nei settori giovanili di Pergolettese e Pizzighettone. Poi c’è stata la bella esperienza sulla panchina del Pontisola in Serie D nel 2013, ma purtroppo abbiamo perso il campionato per un punto. Nel 2013 ero a un bivio: passare alla Feralpi Salò o all’Atalanta nelle giovanili. Ho scelto la seconda strada. A Bergamo poi ho avuto la fortuna di conoscere Edy Reja, arrivato dopo l’esonero di Stefano Colantuono. Il mister ha dovuto mettere in piedi un nuovo staff. Cercando tra gli allenatori del settore giovanile scelse me. Reja primo, io secondo: così è stato all’Atalanta e anche nell’Albania.
Che cosa accomuna lei e Reja?
La sincerità e la fiducia nel prossimo. Entrambi siamo persone che dicono sempre quello che pensano. Il primo giorno che ho incontrato mister Reja mi sembrava di conoscerlo da trent’anni. Abbiamo un carattere simile anche nella gestione del gruppo. Pensiamo che sia importante allenare, ma allo stesso tempo creare un rapporto di amicizia con i giocatori.
Com’è andata in Albania?
Abbiamo vissuto una bellissima esperienza lunga tre anni e mezzo. Siamo riusciti a creare un gruppo di lavoro affiatato dentro e fuori dal campo. Lo staff era composto da italiani e da albanesi. Si è creato un mix che ci ha permesso di allenare molto bene. Purtroppo i risultati dell’ultima Nations League non sono stati positivi: questo ha spinto la Federazione a prendere altre scelte. Adesso studio per ripartire. Sto cercando una panchina per tornare a fare il primo allenatore. Aspetto l’opportunità giusta.
Che tipo di calcio le piace fare?
Quello che piace a tutti gli allenatori emergenti: propositivo, basato sul possesso palla, ma allo stesso tempo molto aggressivo. Voglio che la mia squadra recuperi il pallone il più presto possibile: quando ce l’hai tu corri meno pericoli. Mi piace che l’azione parta da dietro con il portiere, però senza esagerare. Mi ispiro al calcio di Jürgen Klopp, a un possesso palla finalizzato.
Lei è tornato a Crema in provincia di Cremona, città di origine di Gianluca Vialli. Che cosa ci lascia?
Sono stato alla messa in suo suffragio nella chiesa Cristo Re, nell’oratorio dove Gianluca ha mosso i primi passi. Era strapiena. Lascia qualcosa di unico. Non è stato solo un calciatore. È stato un leader dentro e fuori dal campo. È stato fondamentale nel mio cammino alla Juventus. Al mio arrivo ero stato pagato tanto e le aspettative dei tifosi e della stampa nei miei confronti erano alte.
Che cosa le ha insegnato Gianluca?
Al mio arrivo Vialli era già un uomo importante nello spogliatoio. Mi ha incoraggiato tanto. Aveva sempre una parola di conforto. Questo mi ha dato la forza per tapparmi le orecchie, non ascoltare le critiche. Vialli era il nostro leader e il vero capitano di tutti.
Ci racconta il suo rapporto con Vialli fuori dal campo?
Eravamo tutti e due soli a Torino, pranzavamo e cenavamo spesso insieme. Abbiamo passato belle serate insieme. Con Gianluca si poteva parlare di tutto: dalle cose più scherzose a quelle più serie. Parlavamo di religione e su cosa ci attende dopo questa vita.
Al suo arrivo c’era Giovanni Trapattoni, poi sostituito da Marcello Lippi con cui Gianluca è esploso…
Prima del mio arrivo, la Juve aveva costruito uno squadrone in cui non c’era solo Vialli: penso a Paolo Di Canio, Roberto Baggio e Andreas Möller. Prima dell’arrivo di Lippi non era arrivato quello che molti si aspettavano. Con Marcello la Juve è diventata la squadra che tutti conosciamo e che ha raggiunto gli obiettivi più grandi. In quel momento Vialli si è realizzato completamente.
Quanto è legato alla ‘sua’ Coppa Italia 1994-95?
Ho segnato contro il Parma in finale sia all’andata che al ritorno. È stato unico. Sono molto legato a quel successo, anche se la Coppa dei Campioni e l’Intercontinentale restano indelebili. A Roma sono rimasto in panchina, a Tokyo ho giocato titolare come terzino sinistro: non era il mio ruolo, ma per una finale simile avrei giocato anche in porta. È stato il coronamento di una serie di vittorie che oggi potrebbero arrivare anche ottenendo il quarto posto in campionato. Noi abbiamo vinto tutte le competizioni.
Che rapporto c’era tra Vialli e i calci di rigore?
Non aveva un grandissimo feeling, come spesso succede a tanti numeri nove che li tirano solo perché portano quel numero sulle spalle. Mi ricordo che Gianluca si fece male al piede calciando dal dischetto a Roma e fu costretto a restare fuori per molto tempo. Nel 1996 con l’Ajax non ha tirato, nel 2021 non ha guardato i rigori nella finale di Euro 2020. Per fortuna abbiamo vinto lo stesso.
Vialli è stato l’ultimo capitano della Juve ad alzare la Champions: che cosa è successo tra il club e questa Coppa?
C’è sempre stato qualcosa di particolare, come se non si attraessero. Penso alla finale persa contro l’Amburgo. La Juve ne ha giocate tante partendo favorita, poi però non ha portato a casa niente. È la società che ha vinto più campionati italiani e che vanta il maggior numero di partecipazioni, nonostante questo ha vinto meno rispetto ad altre squadre. C’è una specie di maledizione.
Brucia ancora la sconfitta contro il Borussia Dortmund nel 1997?
Venivamo da una stagione in cui avevamo vinto tutto. Forse siamo arrivati alla finale sapendo di aver fatto una grande annata che sarebbe rimasta tale in caso di sconfitta. Questo ha tolto quella rabbia agonistica che contro l’Ajax era stata decisiva. Fummo sfortunatissimi. Dominammo i primi 20 minuti, ma sbagliammo troppo. Bruciano meno le finali perse da Massimiliano Allegri: la Juve non era favorita né col Barcellona nel 2015 né con il Real Madrid nel 2017. Arrivare così avanti era stato qualcosa di grande.
Lei e Vialli siete accomunati da un percorso all’estero: anche in questo caso Gianluca è stato decisivo per lei?
Alla fine degli Anni ’90 si è aperto un mercato diverso, complici anche le conseguenze della sentenza Bosman. Andare all’estero prima di allora era impensabile, Gianluca fu uno dei primi a farlo. Prese quella scelta dopo la finale di Coppa dei Campioni. Presi la stessa decisione un anno dopo. Volevamo fare un’esperienza in un campionato diverso con una lingua e una cultura diverse.
Che cosa affascinava di più Gianluca?
Era entusiasta per come veniva vissuto il calcio in Inghilterra: rispetto all’Italia c’erano meno stress e più sportività. Il pubblico trasmetteva grande calore, alla fine della partita c’era sempre grande serenità. Il suo entusiasmo ha spinto anche me a trasferirmi l’anno dopo. È stata un’esperienza bellissima. Il pubblico scozzese, come quello inglese, desidera solo che i giocatori diano tutto per novanta minuti e che sudino per la maglia. Il risultato è una conseguenza. Ricordo stadi pieni con tante famiglie sugli spalti.
C’erano tanti italiani in quei Rangers Glasgow: l’ha aiutata questo?
Mi ha permesso di ambientarmi in fretta. Ci ha rimesso il mio inglese perché parlavamo spesso italiano. C’erano Lorenzo Amoruso, Gennaro Gattuso e Marco Negri. Tra gli stranieri Paul Gascoigne, Joachim Björklund, Jonas Thern e Brian Laudrup.
Che cosa dava Gascoigne ai Rangers?
Fantasia e goliardia. Ogni giorno ci aspettavamo uno scherzo diverso. C’erano giornate in cui era incontenibile, altre in cui dovevi supportarlo. Però quando Gazza era nelle condizioni giuste faceva male, era impossibile prenderlo allora in quel calcio in Scozia.
Passando alla strettissima attualità. Juve, Milan e Atalanta: chi ha sorpreso di più? Chi ha deluso?
Negli ultimi anni mi ha sorpreso di più il Milan. In questa stagione mi ha colpito di più la Juve perché era partita malissimo sia in campionato che in Champions League. Non mi aspettavo di rivederla seconda in classifica a sette punti dal Napoli. Con una vittoria la Juve arriverebbe a quattro punti di distanza prima della fine del girone d’andata, inimmaginabile mesi fa. Quella che sta deludendo di più è l’Atalanta perché ci ha abituato bene. Non è spumeggiante e grintosa come negli anni passati, quando aggrediva senza farti respirare. Nonostante questo sta facendo comunque cose incredibili.
Lei è cresciuto al Milan: quanto è difficile per un giovane indossare la maglia rossonera?
La maglia di tutte le società importanti pesa perché la richiesta dei tifosi e della critica è una sola: vincere. Spesso non si ha tempo per dare spazio ai giovani. La maturità però arriva attraverso percorsi in cui si inciampa e si fatica. In Italia abbiamo troppa fretta.
Sa farmi un esempio di un giovane che ce l’ha fatta?
Davide Calabria. Prima che chiudessero gli stadi per la pandemia, quando scendeva in campo a San Siro veniva fischiato. Io l’ho provato sulla mia pelle a Torino e so che cosa significa andare in difficoltà. Senza pubblico Calabria ha trovato la tranquillità per mostrare le sue qualità. Oggi è diventato un giocatore imprescindibile. Se avessimo più pazienza potremmo lanciare altri ragazzi.
E lei com’è diventato calciatore? C’erano sportivi nella sua famiglia?
Erano tutti grandi appassionati di calcio. Mio padre aveva giocato alll’oratorio e con l’azienda dove lavorava. Faceva il geometra. Ho sempre amato il calcio. Da piccolo giocavo per strada o per i campi vicini alla mia Vimodrone nell’hinterland milanese. Avevo sempre il pallone tra i piedi, a scuola e a casa. Io abitavo in un condominio e facevamo le porte nella strada che portava ai garage.
Che cosa è cambiato oggi rispetto ad allora?
Si giocava per sette-otto ore al giorno. La scuola era meno impegnativa rispetto ad oggi. Oggi si lavora nel settore giovanile per tre-quattro volte alla settimana, ma non basta. Mancano l’oratorio e la strada dove noi giocavamo tutti contro tutti, grandi contro piccoli. Le prime volte non la prendevi mai, piano piano cominciavi a diventare furbo. Così imparavi a farti rispettare. La strada facilitava la crescita. Il settore giovanile affinava la tecnica e lavoravi sui fondamentali. L’oratorio pensava a darti tutto il resto.
13 gennaio 2023 (modifica il 13 gennaio 2023 | 19:00)
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