Michele Cossato e il bar sul Garda: “Faccio il cassiere ora. Vedere il Chievo in B…”

Fare i conti coi clienti sempre: in campo sotto i riflettori un tempo, al bancone del bar oggi abbagliato dal sole che scalda il Garda. Qui Michele Cossato vive e rivive se stesso, negli abbracci scambiati coi ragazzi di Verona che gli chiedono di scattare una foto insieme e gli ricordano dove erano il 24 giugno 2001. Sono passati vent’anni dal giorno in cui Cossato ha fatto tutto da solo: scavetto, Taibi saltato e colpo di testa vincente per l’1-2 che ha regalato la salvezza agli spareggi contro la Reggina. Una favola che non sarebbe stato possibile raccontare senza l’apporto di Malesani, l’uomo che ha lanciato Cossato ai tempi del Chievo, club che oggi sta vivendo il momento più buio della sua storia. Michele spera in un lieto fine e non fa programmi nella sua seconda vita sulle rive del Garda, dove c’è tutto lo stretto necessario.

Michele, lei si è lasciato il calcio alle spalle: come mai?

Ho lasciato il calcio giocato per limiti d’età, anche se mi sento ancora in forma. Sono rimasto fuori dal calcio per il mio carattere. Non ho mai chiesto niente, mi sono sempre arrangiato. Mi piacerebbe tornare nel calcio, un po’ mi manca. Però non riesco a chiamare i miei ex compagni che allenano per chiedergli di farmi fare qualcosa. I tifosi mi vogliono bene perché in campo ho dato sempre una mano al prossimo.

Che cosa non apprezza di questo mondo?

Dover scendere a compromessi. Mi considero una brava persona e non lo voglio fare. Faccio la mia vita umile, non ho bisogno di apparire. Resto nel mondo del bicicletta e del golf. Io e mio fratello Federico abbiamo organizzato tornei, purtroppo ci siamo un po’ fermati per il Covid. Mi piacciono le macchine. Al sabato e alla domenica lavoro in un bellissimo bagno sul Garda: un mio amico mi ha chiesto una mano in cassa e ho accettato. Sono in spiaggia, c’è la musica. I ragazzi di Verona mi chiedono sempre di scattare qualche foto. Mi diverto a passare quattro ore in mezzo alla gente. Cerco di imparare un nuovo mestiere.

Qualche ragazzo le ha ricordato che il suo gol alla Reggina ha compiuto vent’anni?

Tutti le volte in cui mi sposto nella provincia di Verona due-tre persone mi fermano e mi raccontano dove erano il 24 giugno 2001. Io sono rimasto un ragazzo di Verona. Sono nato a Milano dove mio padre ha lavorato per un anno, poi ci siamo trasferiti in Veneto. Mi sento veronese come mio fratello Federico.

Com’è nata la sua passione per il calcio?

Mio padre faceva il ciclista. Io mi sono innamorato del calcio cominciando a tirare pallonate in casa: io e mio fratello ci mettevamo in corridoio e distruggevano tutto. Volevo giocare, volevo fare il professionista e ce l’ho fatta. Ho giocato ad alti livelli per vent’anni. Io ho fatto tanti sacrifici per diventare calciatore. Per 10-15 anni devi mettere da parte tutto. Vengo da una famiglia colta: mia madre era professoressa di matematica, mio padre si è laureato in economia e commercio, mio zio fa l’ingegnere, abbiamo anche un dottore in famiglia. Io non ho studiato, ho preferito impegnarmi nel calco. A 16 anni ho esordito in Serie D col Valdagno. Poi ho fatto la C col Chievo: avevo 17 anni. Non esisteva la discoteca. C’era solo il calcio.

Lei ha giocato sia nel Chievo che nel Verona: è legato ad entrambe allo stesso modo?

Io ringrazierò sempre il Chievo perché mi ha fatto crescere. Sono partito dal settore giovanile e sono arrivato alla prima squadra. Quando il club è stato promosso in C2 ho cominciato a giocare anche io. Poi abbiamo fatto la C1 e tre anni di B con Malesani. Nel 1997 sono stato venduto al Venezia di Zamparini per 5 miliardi di lire, una bella cifra all’epoca. Ringrazio il Chievo per avermi fatto diventare calciatore.

Lei ha conosciuto la famiglia Campedelli: che tipo è Luca?

Io ho firmato il mio primo contratto col padre Gigi. Suo figlio Luca è sempre stato di poche parole. Nel mio Chievo non ricordo ritardi nel pagamento degli stipendi, ricordo una società sana. Non so che cosa sia successo perché sono rimasto fuori dal club. Ai miei tempi Luca ha sempre fatto le cose per bene.

Il Chievo al momento è fuori dalla Serie B: quanto le dispiace?

Molto perché era una bella realtà. Non so se la favola è finita o andrà avanti. Ho letto che tanti calciatori non hanno voluto giocare in amichevole perché non sanno che cosa succederà. Qualcuno avrà sbagliato. Chievo è un piccolo borgo. Tra il cartello che segna il confine del paesino e il Bentegodi c’è un chilometro in linea d’aria. Chievo è Verona e rappresenta Verona e mi dispiace per quello che sta succedendo.

Che cosa ricorda di Zamparini invece?

Quando c’ero io al Venezia abbiamo vinto il campionato di B e non è stato esonerato nessuno. Novellino è rimasto alla guida della squadra anche l’anno dopo, quello della salvezza in A. Zamparini si vedeva poco perché vincevamo. Era focoso, veniva ogni tanto, stava una mezz’oretta, entrava nello spogliatoio, faceva un po’ di cinema e se ne andava. Abbiamo riportato il Venezia in A dopo trent’anni. Gioacchini e Ginestra erano infortunati. In attacco c’eravamo io e Schwoch: abbiamo giocato un anno con due punte.

Lei ha esordito in A a trent’anni: che cosa ricorda di quella sera?

Ho debuttato con la maglia del Verona contro la Fiorentina nel febbraio 2000: c’era una nebbia pazzesca e non mi ha visto nessuno, nemmeno i miei genitori. Al mio primo anno ho fatto poche presenze. Venivo dall’esperienza all’Atalanta, dall’operazione alla caviglia e al rene. A Verona mi amano a prescindere dal gol di Reggio Calabria perché giocavo come se fossi un tifoso della Curva. Avrei potuto segnare di più, ma c’era da lottare. Se non avessi combattuto così nell’anno di Serie B saremmo retrocessi. Uscivo al settantesimo sempre con lo stadio in piedi anche se non avevo segnato. Lottavo per la mia città.

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