Viviamo sotto l’occhio implacabile di un Var globale. E abbiamo imparato a farci i conti. Lo ignoriamo, lo sfidiamo oppure ci rassegniamo a seguirne le regole: in tal caso, dritti come spilli a pesare le parole che pronunciamo e a dragare le immagini di noi che spediamo in giro.
E’ strano non se ne rendano conto proprio quelli che in mezzo alle onde del Var autentico lavorano, e si esibiscono davanti a plotoni di guardie della morale e non hanno angoli ciechi dove nascondersi né pozzi dove seppellire le voci dal sen fuggite. Strano esistano professionisti del calcio tanto distratti da urlare insulti e minacce contro compagni di mestiere tra spogliatoi e social, proprio dove ogni cosa diventa lampante, ogni cosa è nuda ed esposta alla pubblica indignazione. Esempio, ovviamente esempio di ciò che non è ammissibile: Marco Landucci grida la sua volgare frustrazione in faccia a Luciano Spalletti, è colto in flagrante e viene squalificato. Altro esempio: Marten De Roon col dito medio teso e il portachiavi della Conference League per sfottere la Roma battuta a Bergamo, annessa nevicata di commenti furiosi alcuni altrettanto beceri.
Potremmo aggiungerci un lungo, troppo lungo elenco di incolti che sputacchiano offese razziste ora qui ora là dalle tribune degli stadi, quelle a buon mercato come quelle costose. Tutti, i professionisti e gli incolti, accomunati dall’infantile speranza di non essere individuabili nella massa informe dello show. Danno la colpa al gigantesco Var che è diventata la nostra vita, rivendicando il diritto alla maleducazione.

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Landucci contro Spalletti: le ironie dei social sono spietate
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