Maifredi, Allegri e due manite molto simili

Napoli, la più europea delle italiane

Tanto per cominciare, allora vinse l’idolo, il Pibe; non il tecnico, Alberto Bigon. Oggi, l’idea: l’allenatore. Luciano Spalletti, che il sentimento popolare abbina ai cali nei gironi di ritorno, ha trasformato un mercato di dubbi precoci e feroci (non adesso, naturalmente, da osservatori cinici e un po’ vigliacchi quali siamo) in una bella squadra, e la bella squadra nella più europea del catalogo. Inoltre, il fiasco dell’orso bresciano e della sua zona-champagne, una stagione e a casa, porta a Maurizio Sarri, la cui rivoluzione «estetica» scosse Napoli ma non Torino, in barba al nono e ultimo scudetto, per le ragioni che l’abate di Certaldo ha illustrato alla vigilia: il concetto sabaudo di fabbrica (e, dunque, di produzione a «tutti» i costi) contro il «Funiculì, funiculà!» più forte, a volte, dei poteri forti.

Le dimissioni imposte

La doppia «manita» ha fissato confini solidi e abbastanza (in)soliti, con la cronaca pronta, appena può o glielo permettono, a rovesciare, giuliva, le differenze di censo. In fin dei conti, la sentenza di venerdì sa di «dimissioni» imposte: come quelle di Andrea Agnelli la sera di lunedì 28 novembre. Ma l’elemento più dirimente e divertente coinvolge proprio il «feticista dei risultati», secondo il magistrale guizzo della «Suddeutsche Zeitung». A rileggere le formazioni di partenza, spunta una finezza curiosa. E’ la Juventus che schiera più attaccanti, non il Napoli. Basta spulciare il tabellino e paragonare i ruoli, al netto del rendimento. Nel dettaglio: due ali (Khvicha Kvaratskhelia-Federico Chiesa e Matteo Politano-Filip Kostic), un centravanti (Victor Osimhen-Arkadiusz Milik) e un «apolide», Angel Di Maria, decisamente più offensivo di Piotr Zielinski, il più eclettico del centrocampo partenopeo. 

La sfida di Allegri

Sembrava che Allegri volesse sfidarsi e sfidarci, mo’ ve lo faccio vedere io, gradasso e smargiasso, al diavolo il corto muso; sordo agli strali padani che gli avrebbe tirato Gianni Brera. C’era un problema, però. Anzi due: l’avversario e il Dna personale. Le otto vittorie senza gol al passivo erano scaturite da un certo modo di proporsi: attesa sistematica dei Godot di turno, sul pullman, per poi pizzicarli in prossimità del casello. A Fuorigrotta ha così battezzato una formazione più generica che genetica, un 3-5-1-1 che ha costretto Chiesa a fare il terzino su Kvara. Ora, anche nel City del Pep capita che Bernardo Silva e Phil Foden ripieghino, ma per esigenze legate alle circostanze, non per paura. Le fotte di Bremer non si discutono: ciò premesso, e più in generale, Maifredi e l’Allegri-bis, persino quando si traveste, hanno pagato e stanno pagando la schiavitù del pensiero unico. Da spogliarelliste di Las Vegas o da suorine col rossetto, cambia poco: 5-1, sempre. 

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