L’Arabia si compra il calcio tra Supercoppe, Messi e Ronaldo

RIAD (ARABIA SAUDITA) – Il deserto è ovunque. Lo senti subito, lo respiri appena esci dal King Khalid International Airport di Riyad. La capitale di questo mondo sospeso, tra passato e futuro, tra tradizione e modernità, mentre costruisce il presente, che è l’Arabia Saudita. Un presente che oggi sa anche di grande calcio, con le Supercoppe di Spagna e Italia, la prima conclusa domenica, la seconda in programma come finale secca tra Milan e Inter domani. E con quei manifesti digitali che ricordano l’arrivo di Cristiano Ronaldo, un metro sì e l’altro pure, in attesa del duello – ipotetico – con il gemello diverso, Leo Messi, anche lui attratto dalle montagne di denari che da queste parti possono permettersi di offrire. Il binomio perfetto per lanciare la candidatura saudita ad organizzare, nel 2030, un altro mondiale da spostare in inverno.

Immutabile

Ma al deserto di tutto questo interessa poco. C’è sempre stato e non cambierà certo indirizzo, qualsiasi cosa succeda o gli costruiscano intorno. Anche a patto di dover rinunciare ad altri, consistenti pezzi del suo patrimonio millenario. Perché il deserto, appunto, è ovunque. Ti entra negli occhi, nel naso, anche se ancora non lo vedi. Piuttosto, lo intuisci quando guardi le strade, rese polverose dalla sabbia finissima, la sua emanazione diretta, dove si infila anche dove non immagini tu possa trovarla. E un giorno dopo l’altro, ogni cosa, oggetto si opacizza sommerso dal velo di cipria, forse fondotinta che le colora, anche al buio. Il deserto lo senti anche nella sera fresca, molto fresca, quasi fredda, addirittura piovosa – maledetto cambiamento climatico – che ti accoglie e avvolge in Arabia Saudita. Ti aspetti di soffrire il caldo, come sarebbe normale, e invece sembra di stare in Italia in un gennaio consueto, quando invece a poche ore d’aereo, a casa, appunto, c’è gente che si gode il sole a 15-18 gradi. Il mondo ribaltato. Ma anche in questo capovolgimento naturale il deserto la fa da padrone. Andate a chiederlo ai 3.500 del bivacco della Dakar che nelle prime sere al nord del regno saudita hanno battuto i denti nel gelo delle loro tende sommerse dall’acqua, o sul camion dei ricambi, ognuno nel suo sacco a pelo, dove il calore dei tanti falò nemmeno arrivava a causa dei diluvi torrenziali che li hanno spenti. La temperatura però non toglie sensazioni, semmai le esalta. E un odore sconosciuto prende possesso delle narici, sembra quasi un profumo per quanto è dolciastro. Difficile abbinarlo a qualcosa di conosciuto, chessò, una spezia. Poi la suggestione diventa certezza: è l’odore del deserto. Ce ne facciamo una ragione.ù

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Paradosso

Il pullman viaggia alla velocità di una lumaca sull’autostrada che porta in questa città, la capitale del deserto con i suoi 7 milioni e mezzo di abitanti che sembrano darsi appuntamento – a tutte le ore, dall’alba a notte inoltrata – per il volume di traffico caotico che l’avvolge da ogni parte. E nonostante i limiti di velocità dicano che si potrebbe arrivare a 140 km/h. Ma forse è meglio così: dalle nostre parti, al giovanissimo autista che lo conduce, non faremmo guidare nemmeno una bicicletta. E invece al baby driver hanno affidato un “bestione”, un’autentica mina vagante soprattutto se guidato con i tradizionali sandali saudi. Ancora più pericoloso nel traffico folle di Riyad, dove ognuno guida come vuole tra “scarti” improvvisi, sbandate, “inchiodate” da brividi, gli enormi Suv o pick up che adorano comprare. Un caos tutt’altro che calmo, praticamente isterico, nella sua intensità. Ma il paradosso balza agli occhi: è tutto concentrato sulla via principale. Su quelle laterali domina la “desertificazione” in tutti i sensi. Un panorama inquietante intorno a noi. E anche quello che sfioriamo al passaggio non scherza. Una sequela interminabile di fast food all’americana, di tutti i tipi, generi e livelli. Da quelli tradizionali, a quelli con cibo locale, ma sempre nel format d’oltreoceano, evidentemente ammirato. Moltiplicazione all’ennesima potenza dell’odiata… americanità trasferita sul suolo e nella cultura che gli americani li ha sempre e solo considerati infedeli. Anche se i sauditi sono tra i migliori alleati dell’universo a stelle e strisce. In arabo il nome della capitale significa “giardini” che, a guardare bene, è l’ennesimo paradosso di un mondo lontanissimo dal nostro, anche se ne stanno costruendo uno immenso in nome del re Feisal. Qui spuntano mega alberghi illuminati sempre a giorno con luci sgargianti, neanche fossero funghi dopo la pioggia. Luci quasi eccessive, per colori e intensità, come se questa esibizione di sfarzo si contrapponesse alla realtà ancora in cambiamento. Così, lungo lo stradone principale a otto corsie costellato di cantieri che porta in centro, tra un albergo lussuoso e l’altro, si alternano enormi crateri, come se una bomba avesse aperto un varco nell’alternanza fast food-alberghi e la sabbia, il deserto, di volta in volta, si fosse ripreso il suo spazio regalando alla visione generale quella sorta di precarietà, di questo mondo in trasformazione, dove alla fine si torna sempre al deserto. La realtà quotidiana con la quale fare i conti.

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Radici profonde

Già, il deserto. Ancora lui, sempre lui. Si riappropria dei suoi spazi con una miriade di bancarelle dove i sauditi espongono frutta e verdura e ancora di più quando in enormi spazi si intravedono numerose macchine parcheggiate sulla sabbia, mentre gli occupanti sono tutti seduti intorno al fuoco dove mangiano e bevono, rigorosamente bevande non alcoliche come da precetto islamico. L’istantanea di un popolo che torna alle sue radici, al deserto, guarda un po’, di tribù nomadi, mentre l’élite fondata sul petrolio cerca attraverso il lavoro della massa di trovare il compromesso giusto con il tempo che passa e la modernità ineludibile. Forse per questo la Dakar appassiona fino a un certo punto i sauditi, che invece impazziscono per il calcio e i suoi fenomeni. Comunque è tutto funzionale a quel processo di crescita avviato da re Salman con il suo programma di riforme che ha iniziato a scalfire anche il muro della discriminazione femminile. Un processo lento, lentissimo dove servono passi misurati per evitare il rischio di tornare indietro alla partenza con l’integralismo religioso sempre in agguato. Riyad, tanto per dire, è sede dell’università femminile più grande del mondo, ma provate ad avvicinarvi, se ci riuscite. Un po’ come ci è capitato in uno dei tanti centri fitness “only lady” disseminati nella capitale: non ti fanno nemmeno avvicinare. E te lo fanno capire in maniera inequivocabile, per quanto l’affabilità araba, come l’ospitalità, sia sacra. Per cambiare c’è ancora bisogno di tempo, tanto tempo. E se per strada qualche donna più emancipata si veste all’occidentale, la massa ti accoglie, sin dall’aeroporto, con il burqa nero dove spuntano solamente gli occhi. E se leggete che a Riyad vogliono giustiziare un professore che usa i social, Twitter e Facebook, dopo aver eseguito solo nel 2022 ben 82 pene capitali, non c’è da meravigliarsi. Proprio un altro mondo.

Cultura

Perché il deserto non è solo sabbia, è cultura profonda, millenaria, il contorno ideale per le 4.300 moschee disseminate a ogni angolo della città. Pensare di attraversarlo da soli è da folli, come pensare di arginarlo o di stravolgere quella cultura. Il deserto è l’altra faccia del mare, colori diversi, la stessa dimensione di infinito. Un oceano di sabbia capace di regalare emozioni violente se vissute in silenzio, perché questo bisognerebbe fare quando ci si pone di fronte alla potenza senza fine della natura. Ha i suoi abitanti, dromedari, cammelli, scarabei e tutta la fauna nascosta. L’uomo ci si avvicina poche volte e in maniera non esattamente gentile, con i suoi oggetti più rumorosi. Eppure sta imparando a farne degli altri più compatibili con il senso del mondo in cui viviamo. Perché tanto il deserto rimarrà sempre lì dove è stato sistemato da qualche mente superiore e allora tanto vale rispettarlo. Attraversare le dune come abbiamo avuto il privilegio di fare quasi surfando con una vettura è una di quelle emozioni difficili da cancellare. Ma affondare fino quasi al ginocchio nella sua soffice epidermide fatta di granelli di sabbia forse è ancora meglio. Si entra in contatto con un altro mondo. Non il nostro, quello di tutti.

Sostenibilità

È parola magica abbinata alla chiave di tutto, cioè sempre il cambiamento, ed è impossibile negare che anche l’Arabia Saudita stia facendo la sua parte. Solo che per loro è decisamente più complicato: la monarchia assoluta gestita da re Salman deve infatti sempre fare i conti con il legame indissolubile con il petrolio. I numeri dicono che l’Arabia Saudita è il secondo Stato al mondo per riserve dell’oro nero, dato aggiornato al 2019. Ma anche al netto delle recenti difficoltà con lo sbalzo dei prezzi al barile, e le varie crisi che si sono succedute, il petrolio per il regno saudita rappresenta più del 95% delle esportazioni e il 70% delle entrate del governo. Con le quali il sovrano ha comunque avviato un vasto piano di riforme, mentre procedeva la trasformazione del Paese, da polo sottosviluppato a una delle nazioni più ricche del mondo.

Visione al 2030

Cinque anni fa, l’erede al trono saudita, Muhammad bin Salman, figlio del re in carica, ha svelato la Saudi Vision 2030, un ambizioso piano strategico finalizzato a trasformare l’economia saudita e ridurre la dipendenza dal settore petrolifero. Tra l’altro, entro il 2030, l’Arabia Saudita punta ad aumentare le entrate pubbliche non petrolifere da 36 a 223 miliardi di euro. Come? Il fulcro di tutto è Neom, la città del futuro. Un avanzato hub industriale, commerciale e residenziale totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico. L’annuncio venne dato nel 2017 in occasione della conferenza “Future Investment Initiative”. E fu definita la “meta dei sognatori del futuro” dove il benessere del singolo e della collettività incontrano l’innovazione, la tecnologia e la sostenibilità ambientale. Una sintesi perfetta che nasce già dal nome tra lettere greche e arabe dal significato eloquente “nuovo futuro”. Joseph Bradley, Responsabile della tecnologia e del digitale, di Neom spiegava: «Neom non riguarda la costruzione di una città intelligente, ma la costruzione della prima città cognitiva, in cui la tecnologia di livello mondiale è alimentata da dati e intelligenza [artificiale] per interagire perfettamente con la sua popolazione». La megacity futuristica si estenderà nella regione Nord-occidentale dell’Arabia Saudita su un’area di 26.500 chilometri quadrati. Il progetto interesserà la provincia di Tabuk, una zona pressoché desertica e scarsamente popolata situata tra il Mar Rosso e il Golfo di Aqaba. L’investimento necessario? 500 miliardi di dollari. A completare il panorama, due anni fa Muhammad bin Salman ha presentato un altro faraonico progetto urbanistico che completerà Neom: la città The Line che non avrà automobili né strade e non produrrà emissioni di carbonio. Sarà distribuita su tre livelli: la superficie sarà destinata ai pedoni, mentre i due strati sotterranei verranno utilizzati per il trasporto e le infrastrutture. Scuole, negozi e altri luoghi d’interesse saranno tutti raggiungibili in 15 minuti a piedi. Ma la cosa ancora più sconvolgente è che The Line preserverà il 95% del panorama naturalistico della regione e si estenderà per 170 chilometri su una linea retta. La città sarà situata al centro di Neom e collegherà la costa del Mar Rosso con le montagne del Nord-Ovest dell’Arabia Saudita.

Tempi diversi

Non abbiamo dubbi che tutti questi progetti vengano realizzati. Ne abbiamo, e tanti, invece, sui tempi. Basta infatti andare fuori Riyad, che è avanti pur con tutti i suoi paradossi, per comprendere meglio il nulla che c’è intorno. Può capitare di non incontrare anima viva per chilometri e chilometri, oppure sfiorare con lo sguardo costruzioni fatiscenti o baraccopoli che regalano un senso di angoscia. Sanata solo da un’altra visione e cioè quando incroci delle persone ai bordi di strade, deserte in tutti i sensi, che rischi di scambiare per i clochard o vagabondi del mondo occidentale. E invece sono semplicemente spazzini con tanto di busta in mano che riempiono con una normalissima pinza tutta la sporcizia che il vento trasporta dal deserto verso la strada. Poi sopraggiunge un camioncino carico di persone con la loro busta e lentamente spariscono all’orizzonte del nulla cosmico del deserto, sempre lui. Un’instantanea oculare che ci riporta alla realtà, quella vera. Ecco, la sensazione è che nemmeno le montagne di dollari, i Mondiali di calcio, i Ronaldo, i Messi potranno colmare velocemente il baratro che c’è tra la volontà del re di cambiare e trasformare in senso moderno la società saudita e la realtà di una tradizione ancora inevitabilmente e profondamente legata ai suoi due pilastri. Il petrolio, madre e padre di tutte le ricchezze, ma per l’élite. Con la massa ancora connessa con la terra, pardon, con la sabbia con cui convive in maniera carnale. La lunga marcia nel deserto è appena cominciata. 


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