La solitudine di Dybala che racconta il naufragio

Se sei triste quando sei solo, probabilmente sei in cattiva compagnia, diceva Jean Paul Sartre. È l’emozione che leggi negli occhi di Paulo Dybala, eroe tragico di questa Juve ubriaca in un mare in tempesta. Sulla barca da cui il capitano Cristiano Ronaldo è scappato portandosi via tutti i gol, il fantasista argentino, condannato per natura e tecnica a esaltarsi nel dialogo, scopre di non avere altro interlocutore di se stesso. Il monologo che ci regala, in mezzo al naufragio dei suoi confusi compagni, è un canto disperato che si spezza in gola, tra un tiro a giro stampato sulla traversa e una triangolazione cercata invano con un Morata mai pronto a raccoglierla.

È una crisi al buio quella che vede la Juve perdere due partite di seguito, per di più contro squadre motivate e ordinate, ma certamente non imbattibili, come Sassuolo e Verona. Una crisi scritta su errori difensivi mai visti per un club di questo rango. Non a caso la Signora non prendeva 15 gol in 11 partite dal 1961. Il secondo segnato dal Verona offre un esempio di drammatica efficacia: quando il Cholito riceve palla, spalle alla porta, a circa venticinque metri da Szczesny, ci sono attorno a lui tre bianconeri: Bonucci che s’incarica della marcatura, Arthur, che gli corre appena dietro, e Chiellini che rientra in diagonale verso l’area di rigore. L’attaccante argentino ha il tempo di girarsi, spostare il pallone nella posizione ideale, alzare gli occhi e guardare il buco che si apre sul secondo palo, perché nessuno dei tre difendenti gli viene incontro, anzi è come se, risucchiati dalla paura, si allontanassero tutti da lui, lasciandogli il tempo di caricare e piazzare il tiro come si fa in allenamento. A vedere la scena, viene da piangere, o da ridere, a seconda dei gusti.

Su questa immagine è scritta la diagnosi di una squadra allo sbando. Quanto alla prognosi, non si capisce in che modo possa tirarsi fuori da una situazione simile. Perché non solo la Juve non è in grado di fare il gioco, non solo va sotto continuamente nel possesso palla e subisce il pressing dei veronesi, ma, nelle rare occasioni in cui pure affonda, non ha finalizzazioni credibili. È una squadra che non punge e che non si scuote, neanche di fronte all’onta di due gol. Un aggettivo la racconta con spietato realismo: «Esangue».

Ma c’è un luogo, simbolico e fisico, in cui la crisi trova le sue ragioni. È il centrocampo, dove un onesto regista come il camerunese Tameze giganteggia come un direttore d’orchestra che abbia con la sua armonia inebetito gli astanti. Eppure lo spartito del Verona è tutt’altro che una sinfonia: il palleggio che Tudor ha imposto ai suoi è basic, ancorché eseguito con velocità e continui cambi di gioco, e soprattutto con il pressing asfi ssiante sui portatori di palla avversari. Così l’ex vice di Pirlo, defenestrato a giugno dalla corte bianconera insieme al suo capo, infligge al blasonatissimo Allegri una lezione di calcio che è anzitutto una lezione di carattere. Perché è inaccettabile che una squadra come la Juve subisca la marcatura come ieri l’ha subita dal Verona.

Lo scudetto è sfumato come un’immagine in dissolvenza, di cui non resterà da ieri neanche un vago riflesso. La Champions ora diventa un’ossessione. Ma non s’è mai vista una squadra primeggiare in Europa e prendere sberle dalle provinciali in campionato. Per questo la crisi juventina non evoca più una transizione, ma una rifondazione. E non sai se il canto triste dell’argentino sia una traccia di speranza per il risorgimento che, prima o poi, verrà, o piuttosto la nenia che racconta il trapasso

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