La piramide di Cambridge e la trasformazione del calcio

Da palla lunga e pedalare all’idea del centromediano, l’evoluzione che ha fatto nascere il calcio moderno

In principio regnava il caos. Il football era palla lunga e pedalare o “kick and rush”, per utilizzare il termine inglese poiché nel regno di Sua Maestà nacque questo gioco. In sostanza, chi entrava in possesso del pallone si preoccupava soltanto di calciarlo in avanti, il più lontano possibile. Ci avrebbero pensato i suoi compagni ad andarlo a prendere e poi a rilanciarlo ancora, fino a che non si fosse giunti nei pressi dell’area di rigore avversaria. Un metodo piuttosto grezzo, oseremmo dire primitivo. D’altronde, essendo una derivazione del rugby, era naturale che questa fosse la sua prima parte di sviluppo. Il calcio era uno sport di nicchia, nella seconda metà dell’Ottocento in Inghilterra. Si praticava soprattutto nelle università e a farlo erano quegli studenti che, stanchi dei soliti giochi, desideravano abbandonarsi nelle braccia della novità, pur non essendo ancora ben chiare le regole e il modo di sistemarsi sul campo. Così il caos, più o meno organizzato, venne considerato lo stile più adatto per prendere confidenza con questo divertimento. Seguendo i canoni contemporanei si può disegnare una squadra di quel periodo secondo il modulo 2-8. C’era il portiere e poi due difensori che si occupavano di rintuzzare gli attacchi avversari, mentre a tutti gli altri era affidato il compito di correre dietro al pallone lanciato da questi due compagni nella speranza di arrivare vicino al portiere rivale. 

Com’è evidente, c’erano ampi margini di miglioramento, sul piano della tattica (oltre che su quello della tecnica). Il campo era una specie di tabula rasa sulla quale ci si poteva sbizzarrire per inventare, creare, costruire. Il gioco non poneva limiti alla fantasia, e fu difatti la fantasia (assieme all’intraprendenza dei suoi interpreti) la prima alleata nell’inevitabile e necessario processo di evoluzione del calcio. A scontrarsi, mentre ancora si dovevano decidere le regole della convivenza, furono la scuola inglese e la scuola scozzese. La prima s’indirizzava verso il cosiddetto dribbling game, cioè attacchi a testa bassa senza il benché minimo ragionamento tattico. Il secondo stile, invece, quello scozzese, era il passing game, e cioè il gioco doveva svilupparsi attraverso una fitta trama di passaggi tra i vari calciatori con il fine di evitare l’intervento degli avversari. In termini di moduli le due scuole differivano di ben poco. A renderle contrapposte era la filosofia che stava alla base. Gli inglesi, più atletici, più alti e più pesanti, puntavano molto sulla corsa, sulla velocità, sulla potenza. Gli scozzesi che, secondo gli studi dell’epoca, pesavano all’incirca sette chili in meno in media rispetto ai rivali, cercavano di superare le difficoltà attraverso l’agilità e la destrezza tecnica. I confini delle due scuole, tuttavia, erano piuttosto elastici. Al sud s’incontravano squadre molto “fisiche”, come si direbbe oggi, improntate a un gioco che si fondava sui lunghi lanci e sulle corse potenti degli atleti, mentre, risalendo il regno di Sua Maestà, l’aspetto atletico tendeva a perdere importanza per lasciare campo alla teoria del passaggio, dello scambio ravvicinato, tanto odiato dagli inglesi perché, secondo la loro mentalità classista, era semplicemente un tentativo di inganno dell’avversario e non, invece, la dimostrazione della superiorità, della vigoria fisica, del coraggio. Mentalità che si contrapponevano nei lontani anni di fine Ottocento, e non bastarono le regole stabilite dalla Football Association a far sì che un compromesso fosse trovato. 

La vera rivoluzione si ebbe quando fu tentato un reale esperimento tattico, e cioè quando si provò a sistemare i giocatori in campo secondo un disegno nuovo. Si doveva superare la diatriba tra dribbling game e passing game, si doveva andare oltre e mirare più lontano. Si doveva, in sostanza, trovare un modulo che desse equilibrio a tutta la squadra. E così, dopo diversi esperimenti, si decise che la soluzione più logica sarebbe stata quella di togliere un elemento al reparto d’attacco per piazzarlo a centrocampo. Considerando che, in quel periodo, si giocava a coppie (due difensori, due centrocampisti, due ali destre, due centravanti, due ali sinistre), fu abbastanza naturale prendere uno dei due centravanti e sistemarlo nella classica posizione del regista. In questo modo si regalò maggiore spazio d’azione all’unico centravanti (quello deputato a fare gol) e si diede alla squadra un uomo in grado di far girare tutta la manovra perché, grazie alla sua centralità, aveva la possibilità di indirizzare facilmente il pallone a destra o a sinistra, e di cambiare repentinamente il fronte d’attacco. Nacque così il ruolo del centromediano. 

Non ancora il classico numero 5 di stampo sudamericano, ma qualcosa che gli assomigliava e che, comunque, ne era il precursore. Con questo elemento pensante in mezzo al campo la disposizione della squadra diventò un 2-3-5, dunque una piramide. Chi sia stato a inventare questo schema non è dato saperlo, anche perché numerose furono le partite in quell’epoca e numerosi, di conseguenza, i tentativi di miglioramenti e di sviluppo del gioco. C’è chi sostiene che l’idea nacque all’università di Cambridge, chi ancora dice che il merito deve essere assegnato alle squadre che giocavano nell’area di Sheffield. In assenza di certezze sulla paternità dell’invenzione, si deve comunque sottolineare la genialità della mossa. Anche perché si tratta di una mossa decisiva per la storia del calcio. Il modulo “a piramide” supera l’Ottocento, sbarca nel Novecento e diventa dominante fino al 1925 quando Herbert Chapman, sulla scorta della modifica della regola del fuorigioco, inventò il WM o sistema. La piramide, con opportune varianti a seconda di chi la interpretava, si trasformò nel famoso Metodo che fece le fortune del calcio danubiano, del calcio sudamericano (l’Uruguay degli anni Venti, in particolare), portò alla gloria l’Austria di Hugo Meisl, la mitica squadre delle meraviglie, e regalò, negli anni Trenta, ben due titoli mondiali all’Italia di Vittorio Pozzo (oltre a un oro olimpico). Non proprio una trovata banale, quindi, quella della piramide. Tanto che da lì si sviluppò, prima in Sudamerica e poi nell’Europa settentrionale, il gioco a zona, mentre dal WM, o sistema, derivò in seguito il calcio all’italiana e il catenaccio. Tutto, anche quello cui assistiamo oggi negli stadi (pur con le opportune correzioni) ha avuto origine lassù, nel regno di Sua Maestà.

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