La nuova vita di Bernardeschi: “Porto il Dna Juve nella Mls”

E il gol.

«Sensazione fantastica. Meravigliosa. Un modo fiabesco per iniziare questa avventura».

Innanzitutto complimenti, Bernardeschi! Ha voglia di riavvolgere il nastro?

«Sì, volentieri. Iniziamo dalla Juventus: massima gratitudine per il club, per la società, per i tifosi, per la squadra… per la famiglia Juve, ecco per quella che è e rimane una famiglia alla quale sarò sempre legato. Come calciatore ho vinto tanto, come uomo sono cresciuto e ho costruito amicizie importanti».

Rimpianti per l’addio, quindi?

«Nel momento del saluto sì, tanto rimpianto. Ma poi ho realizzato con lucidità che quel ciclo era finito. Me ne sono reso conto in vacanza, quando non avevo ancora una squadra e riflettevo sul da farsi».

C’è stato un momento in cui tutto sembrava funzionare a meraviglia. Quella notte del 12 marzo 2019, Juventus-Atletico Madrid 3-0: l’apoteosi della crescita di un talento. Poi non tutto è andato per il verso giusto.

«I primi tre anni alla Juventus sono andati, il secondo, quello di Juventus-Atletico è stato in assoluto il migliore. Poi tutto si è concatenato: nell’anno della consacrazione, quando c’era Sarri, il campionato si interrompe per mesi, tutto diventa surreale, anche alla ripresa delle partite. Tutto era cambiato: l’allenatore, la società, gli stadi vuoti e il mio ruolo, visto che continuavo a essere sballottato da una posizione all’altra».

Colpa degli allenatori?

«No, per nulla! Colpa delle circostanze: c’erano delle esigenze, io ho sempre dato la mia disponibilità, perché sono fatto così e mi piace mettermi al servizio della squadra. Però tutti quei cambiamenti e quei momenti critici, anche per il club, in un momento in cui un calciatore sta maturando possono condizionare. Pirlo, per esempio, aveva un’idea di calcio differente e mi vedeva quasi come un terzino sinistro, ma io non potevo svolgere quel ruolo. Ci ho provato, sempre per lo spirito di servizio e perché Pirlo è una persona magnifica e con lui avevo un buon rapporto, che peraltro conservo tuttora. Ma non ha funzionato. Colpa mia, colpa delle situazioni tattiche che mi hanno un po’ frullato, colpa di circostanze esterne… Non ha, in fondo, molto senso accusare qualcuno o qualcosa, nella vita di un atleta si passano momenti difficili, si superano, si diventa più forti».

Poi è tornato Allegri.

«E a dicembre sono stato eletto MVP del mese. Poi qualche problema fisico e una stagione nella quale la squadra ha faticato. Mi dispiace, poteva finire meglio. Ma alla fine lascio la Juventus con tre scudetti, due coppe Italia, due Supercoppe. Sette trofei e alcune partite che mi rimarranno sempre nel cuore. È finito un ciclo, è stato un ciclo fondamentale per me e ora la Juventus ne apre un altro, del quale sarò il primo tifoso».

Le piace la squadra che stanno costruendo?

«Sì, Pogba è tanta roba. Di Maria pure. È un segnale se arrivano campioni come quelli. È gente che viene per vincere, non per partecipare. E poi c’è Allegri, persona eccezionale, per me uno dei primi cinque tecnici al mondo a livello gestionale. Dovrebbe fare il manager all’inglese, con poteri quasi totali».

E poi c’è Dusan Vlahovic, che ha fatto la sua stessa strada: giovane talento della Fiorentina trapiantato a Torino. Cosa pensa combinerà?

«È un campione. Un campione autentico: un professionista pazzesco che cura ogni dettaglio e ha una fame pazzesca. Mi ha ricordato Ronaldo nell’attitudine. Sono due giocatori differenti, ovviamente, ma hanno quella testa lì, quella smania irrefrenabile. Ed è un bravissimo ragazzo. Mi ha scritto stamattina… gli auguro il meglio perché se lo merita».

Che consiglio gli può dare alla luce della sua esperienza alla Juventus?

«Di assimilare bene il DNA Juve. Allegri lo sa trasmettere benissimo: è quel tipo di atteggiamento con il qualche capisci che non puoi permetterti di sbagliare neppure un passaggio, perché lì ogni pallone conta. Se lo capisci e non ne rimani schiacciato diventi un campione. Adesso io sto portando un po’ di DNA Juve nel Toronto».

Gol all’esordio a parte, come sta andando?

«Bene! La società è serissima e ha un’organizzazione da Real Madrid. Non scherzo, eh! Strutture per gli allenamenti, sede, capacità organizzativa… Sembra di essere in un top club europeo. E intorno c’è un modo di concepire lo sport che mi esalta: io sono in una specie di polisportiva che comprende anche il basket e l’hockey. È una società da 12 miliardi di dollari di fatturato e con un entusiasmo intorno che non potete immaginarvi».

Altro che freddezza nei confronti del soccer, quindi?

«Una cavolata pazzesca! Ci sono sempre almeno trentamila persone allo stadio, quando sono atterrato c’era un migliaio di tifosi all’aeroporto, sono stato accolto come una star. Qui è un altro mondo, un’altra visione: c’è più allegria, voglia di divertirsi, meno isteria agonistica, ma grandissima serietà e voglia di vincere. È la mentalità dello sport americano, che mi ha sempre affascinato».

Insomma, è felice della sua scelta?

«Felicissimo! Guardi, a un certo punto mi hanno cercato delle squadre italiane, una inglese e una francese. Erano offerte interessanti, progetti tecnici che potevano anche ingolosirmi. Ma ho pensato: in Italia hai vinto tutto, con la Nazionale sei diventato campione d’Europa, potevo chiedere molto poco di più, mentre quella della MLS era ed è una prospettiva completamente nuova e affascinante. Ho firmato un contratto lungo, praticamente sei anni. Mi piacerebbe rimanere qui a lungo, diventare un idolo, sviluppare anche altre attività. Pensate a quello che è riuscito a fare Beckham negli Usa».

Addirittura?

«Calma, non mi sto paragonando a Beckham, ma lui ha tracciato una strada per il calcio negli Usa, rendendolo più attraente per gli sponsor e per le persone che prima non erano interessate a questo sport. Lo ha reso più intrigante e ha costruito un personaggio quasi hollywoodiano. C’è molto da imparare dalla sua esperienza americana».

Com’è andata la trattativa con il Toronto?

«Andrea D’Amico è stato spettacolare. Ha trattato per me e per il Toronto, soddisfando entrambe. È lui che mi ha aperto gli occhi sul potenziale della MLS, che non è grande come la NBA, ma è costruita con gli stessi principi, lo stesso spirito. Il calcio sta crescendo, qui ci saranno i Mondiali del 2026 e c’è la voglia del movimento calcistico di emergere ad alti livelli. E lo sapete che quando gli americani vogliono fare emergere qualcosa, sanno perfettamente come fare. Si sta investendo tantissimo: 10 anni fa per una licenza servivano 20 milioni, oggi 200. Capito la tendenza?».

La prima partita com’è andata? Il gol, un assist e…

«Tanta fatica! (ride) Erano mesi che non giocavo, ci ho messo dieci minuti per spezzare il fiato. Qui c’è un’intensità pazzesca, è un calcio meno tattico, ma atleticamente devastante. Sono tutti atleti e anche negli allenamenti si va a mille».

E fuori dal campo?

«La parola d’ordine è easy. Per le partite in casa si va allo stadio un’ora mezza prima della partita, vestiti normale».

Beh, “vestito normale” per lei è un concetto…

(ride) «Beh, ho il mio stile no?».

Quindi si arriva allo stadio ognuno per conto suo, senza ritiro o cose così?

«Certo. Ma c’è molta serietà da parte dei calciatori: tutti professionisti seri. Poi si firmano gli autografi ai tifosi e poi inizia una routine abbastanza simile alla nostra».

Le difese come sono?

«Forti fisicamente, ma con meno malizia rispetto alle nostre».

Come siete messi in classifica?

«Non molto bene, ma siamo a sei punti dalla zona playoff: l’obiettivo adesso è provare a vincerle tutte».

Molto juventino come concetto.

«Ve l’ho detto! Porto un po’ di mentalità bianconera a Toronto».

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