Kean esclusivo: “Ronaldo e Allegri i miei due maestri”

Ventitré anni, sette di calcio alto, la Juve subito, gli scudetti, le presenze in Champions, la Nazionale a diciotto, il Psg, l’Everton, di nuovo la Juve, le attese, le speranze, le leggerezze, le delusioni, una naturale, ingenua voglia di stravivere. E i gol: a Parigi tredici in ventisei partite. Le irrisolutezze, anche. E un’energia esplosiva, talvolta incontrollata. Moise Kean la scommessa, Kean come quell’altro che prima di lui ha sbagliato troppo fino a buttarsi via, Kean promosso all’esame di immaturità, Kean che esprime il proprio umore, i propri momenti («e la temperatura», aggiunge: questa la capirò a fine mese, forse) cambiando il colore dei dread.  

Kean che oggi è diverso, «ma è sempre stato un bravissimo ragazzo» mi ripetono tutti, in particolare Federica dell’ufficio stampa che lo conosce fin da quando era bambino. «Ho girato tanto, è vero, ora lavoro sodo per trovare una stabilità e la continuità» attacca Moise con quel vocione che raramente abbiamo ascoltato «perché le interviste non mi piacciono, mi sta bene non farle». Appunto.

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Quattro anni fa Paratici mi disse che in poco tempo saresti diventato uno dei più forti attaccanti al mondo. Ne era straconvinto. Diciamo che sei un filo in ritardo sulla sua tabella di marcia. 
«È una cosa molto positiva, che l’abbia detto… Sono ancora in tempo, non sono uno che guarda troppo avanti. Gente come Salah e Mané ha impiegato un po’ di anni prima di esplodere. Mané ha trentun anni, Salah è diventato Salah a venticinque. Ho avuto la fortuna di giocare con grandi campioni qui a Torino, a Parigi, Liverpool e i campioni aiutano a crescere. Cristiano ad esempio…».  

Partiamo da lui. 
«Ha lavorato per diventare il numero uno, non si è fatto bastare il talento. “Dài, facciamo una partitella, divertiamoci un po’”, diceva. Poi, se non davi tutto, se non sputavi sangue anche in quei pochi minuti, ti riprendeva. Per lui anche il divertimento era un lavoro».

Ricordo che in Inghilterra Ancelotti non ti diede molte opportunità. 
«All’Everton c’erano Calvert-Lewin, che quell’anno segnava anche col respiro, e Richarlison. Spazio, pochissimo. La Premier è il campionato più bello del mondo, il più difficile, avevo diciannove anni, ho poco da rimproverarmi».

Allegri sta puntando molto su di te. 
«Mi ha sempre trattato da uomo, fin da quando mi seguiva nella Primavera. È stato duro, duro nel senso buono… Da allora molte cose sono cambiate, il percorso da seguire l’ho individuato, mi sto dando da fare».

Cosa, in particolare, è, oppure hai, cambiato? 
«Ho uno staff che mi segue. Uno staff personale».

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Extra Juve? 
«Sì, lavoro con loro anche quando non ho l’allenamento. Quattro persone, un nutrizionista, un preparatore atletico, specialisti che mi aiutano a migliorare, non trascuro più niente. Lavoro molto sul ritmo e per evitare sprechi di energia e qualche errore del passato».

Che peraltro hai pagato, in particolare in Nazionale. La coppia Kean-Zaniolo non era proprio popolarissima da quelle parti. 
«Nico è un’ottima persona e un amico, abbiamo passato bei momenti insieme».

Troppi, forse. 
«Siamo ragazzi. Ha fatto una scelta, ci sentiamo spesso, non dico tutti i giorni, quasi tutti. In Turchia è felice e so che riuscirà a dimostrare quanto vale. La sua felicità mi rende felice. Dagli errori si deve ripartire».

L’umiltà di farsi aiutare è già un segno di maturità. 
(Sorride e si guarda attorno).  

Mancini vi ha messo in stand-by, anche se per motivi diversi. La maglia che dovrebbe essere tua ora è sulle spalle di Retegui, argentino di nascita. Sei favorevole o contrario agli oriundi? A me, ti informo, le naturalizzazioni per disperazione non sono mai piaciute perché deprimono il nostro calcio e riducono ulteriormente gli spazi per ragazzi come te, Pinamonti, Raspadori, Colombo.  
«Non lo considero un problema, per me non lo è. La cosa più importante è che chi veste la maglia azzurra deve essere disposto a sudare, e tanto. La Nazionale è un traguardo importante… Ho imparato che il talento va lavorato ogni giorno, in ogni momento».  

Questa è una delle stagioni più tormentate per la Juve, i fattori esterni condizionano le vostre prestazioni? 
«La sola cosa che conta è restare concentrati sull’obiettivo. Così si evitano altri pensieri, le distrazioni. Noi non stiamo perdendo di vista il campo, ci impegniamo ogni giorno. Il nostro è un bellissimo gruppo».

Miretti, Fagioli, Soulé, Iling-Junior, Barrenechea, lo stesso Vlahovic: rischi di passare per veterano. 
«Te l’ho detto, è un grande gruppo, stiamo bene insieme».

Danilo il vostro leader. 
«È di un’altra pasta».

La Juve ti ha riportato a Torino spendendo una somma considerata elevata in rapporto a quello che avevi mostrato: sei stato un investimento per il quale molti criticarono Cherubini, l’ultimo ispiratore. Segni anche per lui, quindi. 
«Segno per la Juve e per me».

Avvertite anche voi il nervosismo di Vlahovic? 
«Quando un attaccante così importante non fa gol per due, tre partite di fila gli sale la tensione. Dusan è fortissimo, sente la responsabilità. È un’ottima persona».

Ottima persona Vlahovic, ottima persona Zaniolo. Vivi in un mondo di ottime persone. 
«Perché lo sono». 

Di solito non intervisto calciatori ventenni: troppa distanza, troppi imbarazzi reciproci. Cosa gli chiedo?, cosa potrà mai dirmi? Sorrisi quando Maurito Icardi presentò la sua biografia: cazzo avrà da raccontare a ventitré anni, dissi tra me e me. Non trovai una risposta soddisfacente. Ma una chiacchierata con Moise Kean – vis-à-vis, Teams come unico filtro – mi incuriosiva. Sono rimasto colpito dalla freschezza dell’inesplorato, dalla sua voglia di cambiare registro, dalle sue cautele. Non ho idea di cosa o chi possa diventare: so però che sta tentando di staccarsi da modelli sbagliati e che possiede tutte le qualità tecniche e fisiche per dare ragione a chi ha dimostrato di credere in lui almeno tre volte.  

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