Italia, un cambio di mentalità

Nel calcio globalizzato il talento va cercato ovunque si trovi, a patto di saperlo riconoscere. E nel contesto comunitario nessuno può impedire ai calciatori che hanno in tasca il passaporto giusto di muoversi liberamente alla ricerca della propria occasione. Pensare di tornare al passato, cancellando quanto accaduto negli ultimi (quasi) trent’anni, è pura follia. Non è con il protezionismo un tanto al chilo che si salva il futuro della Nazionale. Che però va protetta, e bisogna dirlo forte e chiaro. Più che nuove regole – che pure sono annunciate in arrivo – serve una svolta culturale, una prospettiva sistemica, in buona sostanza un patto per la maglia azzurra. Meno scorciatoie, più comportamenti virtuosi e coerenti. Nella consapevolezza che gli obblighi, dalle liste Uefa agli incentivi per l’utilizzo degli under nelle serie minori, finora sono serviti soltanto a stimolare la fantasia alla ricerca di soluzioni creative per aggirare l’ostacolo. Partiamo proprio dalle liste Uefa, un modello al quale anche molte federazioni nazionali si sono ispirate per contenere i costi e indurre i club a privilegiare il vivaio e gli under. Qualcosa bolle in pentola tra Bruxelles e Nyon. L’avvocato generale della Corte UE, per esempio, si è espresso a favore dell’Anversa che ha fatto ricorso contro quella parte del regolamento che consente di occupare alcune caselle con giocatori formati nei vivai del Paese (massimo 4 su 25) e non necessariamente nel settore giovanile del club.

Le nuove regole

Questa parte della normativa, secondo Bruxelles, andrebbe contro il diritto comunitario, privilegiando i calciatori di casa rispetto agli stranieri. Paradossalmente dalle parti di Nyon sorridono perché sarebbe un via libera per alzare la soglia di giocatori formati all’interno del club (oggi almeno quattro, in futuro forse almeno sei). In linea teorica l’incentivo a sfruttare di più il proprio vivavio dovrebbe aiutare ad ampliare la base di azzurrabili in un momento storico in cui anche i club medio-piccoli finiscono per prendere dall’estero calciatori già semi-formati. E qui il discorso si allarga alle squadre Primavera, sempre più costruite su una base straniera. Il presidente federale Gravina sta pensando a una riforma per tutelare la presenza di italiani almeno a livello giovanile, nei limiti di quanto la specificità dell’ordinamento sportivo può consentirsi rispetto al diritto comunitario. Non si può imporre la presenza di calciatori italiani, ma si può almeno smetterla di incentivare spudoratamente gli acquisti all’estero e quindi di stranieri. Il mercato domestico è meno flessibile, impone ai club italiani di coprire gli acquisti con garanzie bancarie per poter rateizzare il pagamento in più anni, pur essendoci la camera di compensazione ad assicurare la regolarità dei flussi di cassa da un club all’altro.

Le scelte politiche

Per comprare all’estero la fideiussione non serve, punto e basta: e allora, perché non fare shopping oltre confine? Alle regole del calcio, poi, si aggiungono le scelte della politica, come il decreto crescita, pensato per facilitare il rientro (o l’arrivo) dei cervelli ma tornato utile (?) pure per gli sportivi. I club hanno finito per pescare all’estero, preferendo buste paga più leggere (a parità di stipendio netto) a calciatori magari tecnicamente più funzionali. La cornice normativa ha creato le premesse per questi effetti distorsivi, le scelte dei singoli club hanno fatto il resto. Nessuno potrà mai rimproverare al Mancio di non aver parlato chiaro. Lui nel frattempo aspetta, spera e non smette di cercare il talento azzurro. Ovunque si nasconda.


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