Italia, il talento è l'emergenza

Sono passati alcuni giorni dal pesante 2-5 di Mönchengladbach e sono stati giorni di riflessioni sul futuro della Nazionale. Ma forse, per capire o almeno per immaginare cosa sarà di noi, conviene ripartire dal passato. Abbiamo trascorso 12 mesi assurdi, festosi i primi, tempestosi dopo, speranzosi poi, conclusi infi ne con la disfatta di fronte ai tedeschi. Poco più di un anno fa (11 giugno 2021) l’Italia ha cominciato l’Europeo volando. Gol e gioco: 3-0 alla Turchia, 3-0 alla Svizzera, 1-0 al Galles nel girone iniziale. A quell’Europeo, che avremmo vinto con merito anche se con qualche sofferenza, eravamo arrivati con una qualifi cazione fantastica proprio sul piano del gioco. Mancini, dicevamo tutti perché era la pura verità, aveva cambiato la testa all’Italia. Dopo l’Europeo la lunga flessione. Abbiamo perso la qualifi cazione al Mondiale per i due rigori sbagliati nelle due gare contro la Svizzera, ma anche per i pareggi con Bulgaria e Irlanda del Nord e per l’umiliante sconfitta con la Macedonia nel primo turno dei play-off . La coda di questa amarissima serie è arrivata con lo 0-3 contro l’Argentina. E da lì siamo ripartiti, con una squadra di giovani, ma con lo spirito di una squadra vera, come quella dell’Europeo. Bene in Nations League contro Germania, Ungheria e Inghilterra, fino alla batosta dei 5 gol tedeschi a Mönchengladbach. Dopo 12 mesi per certi versi choccanti siamo qui a chiederci cosa siamo davvero e dove vogliamo o dove possiamo arrivare.

Una squadra da Europeo?

Partiamo da dietro, dal dopo 2006, il nostro ultimo Mondiale. Dopo quel trionfo, 16 anni fa, è successo quanto segue. Eliminati nel girone iniziale di Sudafrica 2010 come ultimi dietro a Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda; eliminati nel girone iniziale di Brasile 2014 con la sconfitta contro Costa Rica; non qualifi cati per Russia 2018; non qualifi cati per Qatar 2022. Verrebbe da pensare a una crisi senza soluzione. Sedici anni di buio totale. Ma non è così. In mezzo a questi quattro Mondiali ci sono stati quattro Europei dove l’Italia è stata quasi sempre protagonista. A Euro 2008 siamo stati eliminati nei quarti di finale dalla Spagna (che avrebbe iniziato il suo ciclo d’oro) solo con i calci di rigore; a Euro 2012 abbiamo dato spettacolo col centrocampo rotante di Prandelli perdendo soltanto in finale ancora contro la Spagna; a Euro 2016 abbiamo eliminato finalmente la Spagna (senza rigori) negli ottavi e siamo usciti (ai rigori) nei quarti contro la Germania; a Euro 2020/21 abbiamo vinto. Siamo una squadra da Europeo e non da Mondiale? A occhio sembra una tesi un po’ strana, perché l’Europeo è quasi un Mondiale a cui mancano Argentina e Brasile e, se vogliamo, una big africana, ma il meglio del calcio del pianeta è nel nostro continente. E’ vero che l’Europeo è stato vinto anche da Danimarca e Grecia, non proprio due potenze, mentre il Mondiale non ha mai…sbagliato una squadra vincente, però per l’Italia questa differenza fra campionato del Mondo e campionato d’Europa è così eccessiva da non capirci niente. In due anni, il tempo che passa fra un mondiale e un europeo, non si può esaurire una generazione. In due anni (nell’ultimo caso in 12 mesi) non si può passare da fenomeni a polli. Possiamo consolarci sapendo che il prossimo grande torneo è un Europeo, ma dobbiamo scavare di più per stabilire la ragione di una diff erenza tanto netta. Giocando un torneo dalle nostre parti avvertiamo meno il peso della pressione? Conosciamo di più i nostri avversari? Il clima, in generale, ci è più favorevole? Potrebbe essere così se ci fermassimo al 2010 e al 2014, i mondiali di Sudafrica e Brasile, ma ai due successivi non ci siamo arrivati perché abbiamo perso l’occasione in casa nostra.

I campioni che mancano

E’ giusto ragionarci sopra, così come è giusto cercare un rimedio, una medicina per il male che affligge il calcio italiano. Si parla tanto dei settori giovanili, dei centro sportivi, dei troppi stranieri che riempiono la Serie A tantoché Mancini ha fatto debuttare in Nazionale dei ragazzi che non avevano ancora messo piede in A. E’ un indirizzo corretto, senza dimenticare che il talento va sì allenato ma solo dopo che è nato. In una interessante intervista pubblicata dal Corriere della Sera qualche giorno fa, il diciottenne Willy Gnonto, diventato il più giovane marcatore della storia della Nazionale, ha detto: «Si parla tanto di noi giovani, ma bisogna anche dimostrarsi all’altezza». Sono parole di un ragazzo maturo, ben oltre i suoi 18 anni. Gli stranieri occupano troppi posti, è vero, ma facciamo un’ipotesi assurda: se la Roma in organico avesse 24 stranieri e un solo italiano e quel solo italiano corrispondesse al nome di Francesco Totti, sarebbe titolare o no? Nella Juventus di Conte e Allegri, dietro giocavano Buff on, Barzagli, Bonucci e Chiellini, quattro italiani su quattro, perché nessuno era forte come loro. Nel ‘94 Sacchi, pur non amando la specie, aveva a disposizione tre numeri 10 come Zola, Baggio e Mancini, che poi rinunciò all’incarico azzurro proprio perché la concorrenza era esagerata. Certo, c’erano meno stranieri, ma il talento di quei tre era sconfinato. E di sicuro non era nato in centri sportivi all’avanguardia, da ragazzini non avevano avuto istruttori col patentino. Nel 2006, quando gli stranieri erano già tanti, il regista della Nazionale era Pirlo, adesso, con tutto il rispetto, è Cristante, ma con lo stesso rispetto possiamo dire anche Jorginho e Verratti. Gli attaccanti erano Gilardino, il bomber della Champions Inzaghi e la Scarpa d’Oro Toni, adesso sono Belotti, Raspadori, Scamacca, Gnonto, oltre a Immobile. Il problema dell’occupazione straniera nel calcio italiano non è legato alla quantità, ma alla qualità: quelli bravi aiutano a crescere, quelli meno bravi bloccano la crescita dei nostri ragazzi, però costano meno (anche di tasse) ed è la ragione per cui i dirigenti li scelgono, fregandosene della Nazionale. Questo non vuol dire che dobbiamo aspettare la provvidenza (ovvero, la generosità delle mamme italiane nei confronti del calcio), dobbiamo lavorare, studiare, approfondire e cercare una soluzione. Al tempo stesso, però, è giusto sapere che in questi anni il talento ha scelto altri Paesi. Prendiamo il Portogallo, non una delle grandi storiche, ma di sicuro una delle grandi di oggi: terzino destro del Manchester City (Cancelo), difensore centrale del City (Ruben Dias), terzino sinistro del Paris Saint Germain (Nuno Mendes), centrocampisti del City (Bernardo Silva), del Manchester United (Bruno Fernandes), attaccanti del Liverpool (Diogo Jota), del Milan campione d’Italia (Leao), dell’Atletico Madrid (Joao Felix), oltre a Cristiano Ronaldo. Forse il movimento calcistico del Portogallo è più avanti del nostro? Dobbiamo fare un passo indietro per ripartire. Col lavoro, lo studio e l’umiltà. Dobbiamo preparare un terreno fertile al talento, quando tornerà a germogliare anche da noi.

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