Il gol di Barcola era dell’Europeo, non della Nations League. Come se il 29 giugno, giorno di Svizzera-Italia, fosse ieri. Era il solito gol, dopo 13 secondi (con l’Albania ne erano passati 10 di più), con la solita follia di Di Lorenzo che magari diventerà anche un difensore da linea a tre, per ora non lo è. Ma su quel gol qualcosa è cambiato. Solo per cautela, per prudenza non diciamo che è cambiato tutto. Perfino la tecnica che prima di questo trionfo era nettamente a favore dei francesi. Ma soprattutto la testa, l’atteggiamento, il desiderio di non farsi sopraffare come era accaduto in Germania. Per pudore, per quello che abbiamo vissuto due mesi fa, preferiamo “un’altra Italia” a “grande Italia”, anche se grande lo è stata davvero col 3-1 al Parco dei Principi, di fronte a un avversario con quella qualità, che giocava in casa e in panchina aveva gente come Kolo Muani, Thuram e Dembelé. E’ stata una vittoria così bella e così vera che alla fine della festa restava un sottile retrogusto amarognolo, un rimpianto, un rammarico: fossimo stati questi all’Europeo, non avremmo fatto quella fine. Anche quando abbiamo giocato a tre, contro la Croazia, l’Italia non era così, era un’altra cosa. Peccato. Però adesso su queste montagne russe dove abbiamo fatto salire il nostro calcio siamo nella parte più alta. Una volta tanto, per piacere, regaliamoci il tempo per godere. Preso quel gol folle, abbiamo cominciato a fare l’Italia. Lo spirito ha ricordato (sottolineiamo ricordato) quello dei bearzottiani. Assatanati. Abbiamo colpito una traversa, Retegui ha sbagliato il tap-in di testa e abbiamo segnato l’1-1 con un gol degno del Parco dei Principi, cinque passaggi con due cambi-gioco, ovvero il movimento che ha messo in crisi i Bleus: da Pellegrini a Cambiaso, da Cambiaso a Dimarco, la palla che volava da una fascia all’altra, tocco per Tonali, tacco di Tonali, sinistro di Dimarco all’incrocio dei pali. La prima speranza è che questa partita con questo risultato abbia decretato la fine del calcio liquido e anche di quello relazionale, ieri sera i mezzi spazi sono diventati spazi interi (perché uno spazio è uno spazio, corto o lungo, largo o stretto, ma resta sempre uno spazio), siamo passati d’un colpo dall’idea sacchiana a quella trapattoniana, dal sogno europeo del calcio di Rinus Michels a quello casareccio di Nereo Rocco (il 2-1 in contropiede è l’inno a quel calcio). La seconda speranza è che questa vittoria non ringalluzzisca di nuovo Spalletti, il basso profilo a volte è il profilo migliore. Luciano aveva detto che per quel tipo di gioco lui non era buono. Si sbagliava. Se l’atteggiamento mentale era corretto (sempre meglio poche ma chiare idee che tante e confuse), lo era anche l’impostazione con due ali, anzi, due alissime che calpestavano le linee laterali, Cambiaso a destra e Dimarco a sinistra: Deschamps, con la sua difesa stretta, non ci ha capito niente. In Germania, fra una costruzione a tre e un mezzo spazio da conquistare, ci avevano malamente respinto all’esame di maturità, conoscevamo poco le lingue, un po’ di albanese, quasi niente di croato, assolutamente nulla di spagnolo e figuriamoci lo svizzero del misto franco-tedesco, ma soprattutto non conoscevamo l’italiano. Così a Parigi siamo ripartiti dall’abecedario. A Spalletti saranno girate le scatole a dar ragione al suo corregionale e poco amico Allegri, il sostenitore de «il calcio non è come sparare un razzo sulla luna». Ci siamo presentati con sei, dicasi sei, centrocampisti, tre difensori e una sola punta di fronte alla solita corazzata transalpina. E abbiamo vinto, anzi, trionfato, segnando anche in contropiede. Italiani che giocano all’italiana.