Inter-Milan in Champions, i miei due derby in panchina nel 2003

Tutto si è compiuto nell’arte del montaggio. Se la coppia dei derby di Champions fra Inter e Milan, 0-0 in casa del Milan, 1-1 in casa dell’Inter, fosse stata disposta al contrario sarebbe stata un’altra storia. Sarebbe persino bastato il regolamento attuale per un finale diverso. E invece ricorderemo una semifinale ricca come un’Iliade, ma asciutta come un tiro ai dadi. È stato tutto in quel rotolare, semplice e assurdo. È stato questo il derby del 2003. La prova? Galliani, l’amministratore delegato rossonero, qualche secondo dopo la fine della sfida si affrettò a dire: «Ha meritato il Milan». Lo disse subito perché sapeva di mentire. Ma celebrazioni e disperazione, ora, sono solo il lascito eroso dal tempo.  

Destini segnati

Milan e Inter arrivano al derby dei derby con il destino già segnato, senza saperlo. Il Milan recupera, contro l’Ajax, una semifinale ormai quasi sfuggita di mano, l’Inter conquista a Valencia una qualificazione che ha le stimmate della maledizione. Bobo Vieri segna all’andata e segna subito al ritorno. Ma nel finale, mentre resiste la squadra di Hector Cuper (che proprio allenando il Valencia perse una finale di Champions ai rigori e a San Siro), John Carew e Marco Materazzi, ciascuno 1,93 per oltre 90 chili, franano sulla gamba del grande attaccante e lo mettono fuori combattimento. Il più forte calciatore della semifinale resterà a guardare. Sull’aereo della squadra, di ritorno dalla Spagna, viene fatta un’eccezione. Vieri non è seduto con i compagni, ma al fianco della sua fidanzata di allora, Elisabetta Canalis, in prima fila, con la gamba immobilizzata e lo sguardo perso. 

Carlo il saggio, vincente e fortunato

Le squadre fortunate lo sono più o meno alla stessa maniera, quelle sfortunate non terminano mai di esserlo. E lo sono in tanti modi. Quell’Inter aveva perso uno scudetto a Roma, il 5 maggio, quando Calciopoli era un fantasma senza corpo, ma con tanti cigolii. Hector Cuper, hombre vertical, si gioca la sua carriera contro Carlo Ancelotti, altro hombre vertical, avvinti in un duello che lascerà in piedi uno solo dei due. Lo sente Ancelotti che prima delle due sfide ammonisce: «Chi vince sarà solo andato in finale, ma sia io che Hector abbiamo fatto un lavoro immenso». A quei tempi ero team manager all’Inter e i fatti vissuti si sono succeduti in panchina davanti a me e negli spogliatoi, a contatto con protagonisti e avversari, fotogramma per fotogramma, parola per parola. Come quelle di Ancelotti che conoscevo fin dai temi della Roma e mi disse a risultato acquisito: «Non potevo tacere, il calcio è diventato una malattia che macina gente sana e butta a mare la fatica, come nessuna altra attività al mondo. Chi ha davvero perso e chi ha davvero vinto? Lo dice il risultato. Ma la sconfitta non significa dannazione». Carlo il saggio, Carlo il vincente, Carlo il fortunato. 

Maledizione Inter

La maledizione insegue l’Inter sotto ogni forma, anche sfidando le nostre consapevolezze. Massimo Moratti, il presidente più amato, sente, prima dell’inizio dell’andata, di dover fare un discorso alla squadra. Fatto inusuale e drammatico. «Sono qui a spiegarvi, a voi che venite da tante e diverse parti, e che vivete la squadra come una vostra comunità, cosa significano Inter e Milan. E chi e perché deve vincere. Portiamo dentro di noi profezia e amore. Dignità e storia». Non fu un discorso da presidente, ma da Re. Da re filosofo. Il destino di quel regno era, però, segnato, anche se di lì a qualche anno ne sorgerà uno nuovo e vincente. E l’Iliade diventerà Eneide. Come dice il grande maestro Daniele Gatti, tifoso del sublime musicale nerazzurro, l’Inter è una passione che non arriva all’amplesso, è un amore infelice. Quella fu la messa in scena, su un campo di calcio, del “Tristano e Isotta”. 

Milan-Inter, primo atto

Con tanto di pozione e sortilegio. Moratti prima della gara di andata si avvicina e dopo il discorso da Re, diventa un Principe settecentesco, tra modernità e antichi saperi, affidandosi ad un Cagliostro. Che alchimizza per la squadra una pozione da spargere come olio santo sulla testa dei calciatori. La preziosa ampolla viene consegnata la sera alla Pinetina, chiamo il Capitano Zanetti, i veterani della squadra, fra cui Di Biagio, e comincia l’unzione. L’odore non è da olio santo, anzi. Ma si fa di necessità virtù. La consegna è non lavarsi fino alla gara. Sarà dura, ma sarà fatto. Durante il primo tempo il Milan soffre e nell’intervallo la scena indimenticabile. Nel vecchio stadio di San Siro gli spogliatoi delle due squadre erano praticamente attaccati. Di fronte, separati dal corridoio che poi conduce all’ingresso del tunnel per il campo, c’erano le due stanzette dei dirigenti. Scende dalla tribuna una furia urlante. E’ Silvio Berlusconi. Una trentina di persone, fra funzionari, dirigenti, servizio di vigilanza delle due squadra, assiste alla scena. «Basta, che modo di giocare è questo? Ci vuole Serginho in campo. Capite? Ci vuole Serginho. Diteglielo a quello lì». Sarebbe Ancelotti, quello lì. Le voci continuano dallo stanzino dei dirigenti del Milan. Come se fossero di fronte a noi, tanto è lo schiamazzo. Dalla porticina esce di corsa il vice di Ancelotti, Mauro Tassotti e entra nello spogliatoio della squadra. Di certo va a riferire ad Ancelotti la sfuriata del presidente. E infatti Sergniho nell’intervallo non entra. Lo farà solo nei minuti finali. Sulla panchina del Milan siede un altro hombre vertical. Lo zero a zero in casa del Milan è il peggiore dei migliori risultati possibili per l’Inter. E con questo turbamento Cuper prepara la gara di ritorno. La città e l’intera Italia calcistica attendono. Nell’altra semifinale la Juventus si avvia a sfruttare la lieve sconfitta subita per 2-1 contro il Real Madrid al Bernabeu. 

A cinque metri dalla gloria

Incontrare la Juventus con arbitri Uefa era la grande ambizione di tutti, ma il clima appassisce prima della gara di ritorno. Tanto che stavolta la pozione magica non è presa in considerazione dalla squadra. Nessuna unzione e nemmeno io, nonostante le raccomandazioni di Moratti, insisto troppo. Io non credo alle maledizioni. Ma, tant’è, maledizione fu. Segna Shevchenko. L’Inter schiera in avanti Crespo e Recoba, poco incisivi, la squadra cambia volto in ritardo con Martins che pareggia a sei minuti dalla fine. Non basta. Tutti dalla panchina in piedi alziamo le braccia verso i tifosi interisti. Imploriamo che continuino a spingere e urlare. Lo fa anche Cuper. Mai era accaduto prima. E poi Kallon, anche lui entrato a posto dei titolari, si trova a tu per tu con Abbiati a cinque metri dalla porta. Il colosso milanista blocca in basso il tiro e strozza le nostre urla. Avevamo creduto fino in fondo di poter sconfiggere la maledizione. 

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