Inter e Napoli, dovrebbero custodirle in un museo

Se il calcio fosse semplicemente racchiuso dentro dati statistici, significherebbe volerlo svuotare da qualsiasi espressione artistica: e però, prima ancora che l’algoritmo finisse in un pallone, e dai suoi rimbalzi ne venisse sballottato, c’è stato un tempo che rimane a ricordarci ch’è esistita (per fortuna) una Grande Bellezza. Se volessimo riprodurre le emozioni nell’aridità semplificativa dei matematici dei trionfi, Rinus Michels, tanto per volare bassi, resterebbe dentro confini clamorosamente asfissianti – una Coppa dei Campioni, una “sola”, ja; un Europeo, uno “solo”, ja; e vabbè, anche quattro titoli olandesi e una Liga e varie coppe – che rappresenterebbero un insopportabile limite alla sua immensità, al potere travolgente di quell’epoca, al valore solenne di quegli spettacoli, diventati materia per studiosi. Ma per fortuna, vale ieri e varrà domani, gli effetti di quella rivoluzione, la sua sontuosa e plastica espressione, restano nell’immortalità, scolpiti per i posteri.  

I paragoni sono sempre scomodi, talvolta ingenerosi e spesso improponibili perché scatenano confronti tra mondi troppo distanti tra loro, ma l’Inter e il Napoli, protagoniste della stessa impresa ad un anno di distanza, possono prestarsi a questo giochino dell’anima. E però, mettendo Inter e Napoli allo specchio, bisogna andare a guardarle nei loro occhi che, come se fossero due Gioconde, sembrano osservarvi dritto nei vostri. In questo Museo d’Arte che appartiene ad entrambe, in cui non deve far assolutamente velo alcun accostamento affettivo, le diversità sono evidenti e le affinità pure; e le ideologie – la difesa a tre ed il tridente – rientrano nella Filosofia degli scultori di capolavori che restano.  

Però bisogna poi infilarsi nel dettaglio, scorgere le luci dell’una e le ombre, che pure dànno un senso al dipinto, dell’altra, gustarne le rotondità, i dettagli, l’ampiezza, assaporarne la dolcezza, forse provare ad ascoltare una musicalità che non appartenga alle suggestioni. Il Napoli di Spalletti è stato un calcio universale, ha riempito lo spazio e lo ha conquistato, è diventato il riferimento trasversale che, maledizione, ha avuto un solo torto: essere durato un battito d’ali, utile per adagiarsi nella Storia, 33 anni dopo al fianco di Maradona. Ma quella non è una colpa che può essere addossata ad una squadra che ha stregato perché aveva il ritmo nella testa e il talento tra muscoli e cervello, una commistione trasformata in magia che conquistava. E quella leggerezza, il profumo sempre primaverile della sua freschezza, la modernità sempre attuale restano a futura memoria, diventano un trattato di libertà d’un modello che pur avendo decine di schemi è apparso fuori da ogni schema. Era il suo e basta, dolcemente irripetibile.  
L’Inter di Simone Inzaghi ha una matrice identica, sa solo dominare, s’è liberata con regale prepotenza dei propri fantasmi e di nemici più o meno consistenti, ha la fisicità e pure l’atletismo, una solida organizzazione, è straordinariamente autoritaria e però meno autorevole del Napoli, e però ha il merito, in questa stagione completamente sua, di aver reso piccolissimo chiunque, pure i predecessori ai quali porterà via lo scudetto dalle maglie, e quindi – attenzione – di aver ingigantito in maniera imponente il capolavoro di Spalletti, la sua raffinata genialità. È come se un Cristo Velato si insediasse al centro del tavolo dell’Ultima Cena per sostituire se stesso: non si potrebbe che restare in silenziosa e ammirata contemplazione. 

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